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Il camaleonte mafioso e liquido

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Il mensile free press di gennaio “L’Eco delle valli valdesi” è dedicato a un’ analisi della presenza della criminalità organizzata nel pinerolese. Intervista al magistrato Gian Carlo Caselli

È in distribuzione da oggi 4 gennaio in decine di luoghi pubblici in tutto il pinerolese ed è disponibilie online a questo link il numero di gennaio del mensile free press “L’Eco delle valli valdesi”, con uno speciale dedicato all’analisi della presenza della criminalità organizzata nel territorio. Qui di seguito vi proponiamo intanto un’intervista al magistrato Gian Carlo Caselli: un’analisi del fenomeno mafioso, pervasivo, camaleontico, pericolosissimo.

La mafia è un fenomeno nazionale e condiziona anche il Nord Italia. Anche il Piemonte come ben sappiamo non è immune a questo male. Come possiamo definire il fenomeno oggi?
«Di solito per definire la mafia si usa l’immagine della piovra, e ci sta. Ma sempre di più le mafie sono anche camaleonti, nel senso che hanno una grande capacità di cambiare per adattarsi alle nuove circostanze di tempo e di luogo da affrontare. Per definire il fenomeno quindi potremmo parlare di un monstrum ibrido, metà piovra e metà camaleonte. Sta di fatto che le mafie sono in continua espansione in ogni parte d’Europa. I mafiosi fanno di tutto per passare inosservati e spesso ci riescono. Cercano di sembrare gente qualunque, inoffensiva. In questo modo, sforzandosi cioè di essere il meno possibile sotto i riflettori, riescono a tessere più efficacemente, in maniera più produttiva dal punto di vista economico, quella rete di interessi che è lo scopo principale del loro espandersi e del loro insediarsi nelle aree in cui il riciclaggio può produrre maggiori profitti. Riciclaggio è appunto la parola chiave, al centro di una “economia parallela” che avvelena quella pulita. Sempre più frequentemente si parla di “mafia liquida” con riferimento alla capacità dell’economia mafiosa di infilarsi un po’ dappertutto, come l’acqua».

La mafia – si diceva in Sicilia tempo fa – “non esiste”, erano in molti a sostenerlo, negandone di fatto l’evidenza; “mafiusa” era considerato un vezzeggiativo. Oggi siamo tutti un po’ “mafiusi”? Questo essere “mafiusi” lo abbiamo interiorizzato tutte e tutti noi, inconsapevolmente? 

«La mafia è criminalità organizzata non soltanto di tipo gangsteristico predatorio. All’elenco sconfinato delle attività riconducibili a questa categoria (traffici di droga, di armi, di rifiuti tossici, di esseri umani; estorsioni; gioco d’azzardo; contraffazioni; appalti truccati; corruzione ecc.) si devono aggiungere quelle, del pari criminali, che si collocano sul versante delle “relazioni esterne”. Vale a dire l’intreccio osceno – nel senso letterale ed etimologico del termine – di interessi, affari comuni e favori reciproci tra mafia e pezzi del mondo “legale” (istituzionale, politico, amministrativo, imprenditoriale, economico, finanziario, della cultura e dell’informazione). Tale intreccio è la vera spina dorsale del potere mafioso. E spiega perché l’Italia ne sia ancora appestata addirittura un paio di secoli dopo i suoi esordi. Nessuna banda di “semplici” gangster ha mai potuto realizzare un successo simile. Ma se la forza della mafia è in quest’intreccio inestricabile fra criminalità e (apparente) legalità, sentirsi in qualche modo (anche inconsapevole) “mafiusi” di fatto equivale a condividere certi “valori” (si fa per dire) della mafia, con ciò rafforzandola. Spero e mi auguro, per altro, che dirci “tutti” un po’’ mafiosi sia troppo pessimistico. Penso infatti che l’Italia delle regole, nonostante tutte le difficoltà, sia ancora maggioritaria rispetto alle altre Italie, compresa quella dei “mafiusi” inconsapevoli».

Come possiamo uscire dalle situazioni di comodo, ossia da quelle zone di conforto che ci permettono di ottenere una vista medica prima di altri e ottenere vantaggi, agevolazioni, seppur in modo legale ma illegittimo, e solo perché l’amico ce lo permette. Uscire da queste consuetudini che, di fatto, hanno scardinato qualsiasi regola?

«Piemme edizioni ha di recente pubblicato un mio libro, scritto insieme a Guido Lo Forte, intitolato La Giustizia conviene. Il valore delle regole spiegato ai ragazzi di ogni età. Abbiamo chiuso il libro citando le parole più famose di Francesco Borrelli, procuratore di Milano ai tempi di Mani pulite: “[…] nella perdita del senso del diritto, ultimo estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività ‘resistere, resistere, resistere’ come su una irrinunciabile linea del Piave”. Abbiamo aggiunto che resistere significa opporsi a quel che non va per cercare di migliorarlo o cambiarlo. Si può fare, anche nelle situazioni più complicate. Lo spirito giusto per superare efficacemente difficoltà e ostacoli è: I care. Mi importa, ho a cuore. Vuol dire vivere il presente con radicalità, seguendo una specie di decalogo. Ne ricordo tre punti: “Non concedere spazi alla rassegnazione, all’indifferenza e al disimpegno; non fermarsi alle categorie dell’utilità e dell’efficienza: esistono anche quelle del giusto e dell’ingiusto e della solidarietà; non cercare il favore anziché il diritto, l’appoggio politico o criminale anziché il rispetto della legge e della propria dignità”. In queste parole può anche esservi una risposta alla domanda su come uscire da certe situazioni».


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