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Follie… follie… Per l’Enrico IV di Pirandello l’unica finzione possibile

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Sipario aperto. Siamo davanti a uno dei drammi più significativi del ’900.

La competenza scenografica del regista salta subito all’occhio. Lo scenario è complesso. Lo spazio pluriprospettico articolato tra realtà e finzione interpreta artatamente l’intenzione dell’autore dell’ormai leggendario “Enrico IV”. A terra un disegno labirintico visibile dal video in scena. A sinistra i camerini di un teatro e una porta, al centro il trono al culmine di una scala, a destra una costruzione fitta di immagini grottesche e ritratti, una sorta di pinacoteca dell’anima, dove entrano, escono, si muovono i personaggi di questo raffinato dramma psicoanalitico nel quale si sono cimentati grandi attori e registi della scena internazionale. Un vero e proprio banco di prova. Pirandello ha costruito una perfetta macchina metateatrale, soggiogando gli spettatori con il tema della follia e della finzione, tese a incastrarsi in un gioco inquietante fino all’epilogo. La realtà è lontana, appena evocata dai racconti dei personaggi che ruotano intorno al protagonista, un nobile che in seguito a una caduta da cavallo durante una cavalcata in costume, in una tenuta lontana dalla città, impazzisce, credendo di essere veramente il re Enrico IV di Franconia. Intorno a lui per assecondarlo si muove un piccolo stuolo di servitori in costumi dell’epoca, assoldati dal nipote come scudieri al suo servizio, per alleviargli le sofferenze. Sono trascorsi ventanni. Giunge “a corte”, la sua Canossa, Matilde Spina, la donna da lui un tempo amata, con Belcredi, divenuto il suo amante, a suo tempo rivale in amore che per gelosia provocò la caduta da cavallo del nobiluomo. Con loro è anche Frida, la figlia di Matilde, il fidanzato e uno psichiatra che vuole indagare sul caso.

L’incontro con il folle avviene in osservanza delle regole della casa. Gli ospiti dovranno vestire abiti d’epoca e assecondare la bizzarria di colui che si crede altro da ciò che è. Lo psichiatra, in odore di input freudiani, per favorirne la guarigione propone di fargli rivivere il trauma vestendo la figlia di Matilde come la madre, per ricordargli l’antico amore e riportarlo al momento temporale della caduta. In verità il pazzo, trascorsi dodici anni, è rinsavito, ma preferisce mantenere il suo stato di follia conclamato, continuando a fingere di credersi il re. Durante l’incontro si divertirà a giocare con i suoi ospiti tra allusioni e sguardi che spingeranno Matilde a credere che l’abbia riconosciuta. Quando Frida si presenterà vestita come Matilde in quel fatidico giorno “Enrico” tenterà di abbracciarla scatenando la reazione di Belcredi che indignato vuole sottrargli la fanciulla, ma viene passato a fil di spada e ucciso dal vindice rivale, costretto ormai d’ora in poi a rimanere folle per sempre.

Amara condizione essere condannati alla follia, ancora di più consumare in questa finzione il resto dei giorni per chi ha già consumato dodici anni della sua vita negata come in un lungo sogno, ma anche una sorta di strana libertà dalle pastoie dell’ipocrisia borghese. Fingere o non fingere… diremmo amleticamente. In Pirandello il tema della follia e della finzione, già trattate ne “Il berretto a sonagli” e nel “Così è, se vi pare”, sembra qui assumere più che mai dimensioni importanti e competitive, a fronte del suo predecessore, il grande drammaturgo inglese. E chi meglio degli attori e del teatro può dare spazio al gioco della finzione?

In questa spettacolazione del dramma della follia che è l’“Enrico IV” c’è tutto il gusto della scoperta, dell’indagine e della rivelazione di un mondo parallelo che turba, irretisce, inquieta il nostro autore, notoriamente sconvolto da vicende autobiografiche. Rendere queste sfumature per l’attore che interpreta il ruolo del folle che, rinsavito, a sua volta interpreta la follia, è un compito arduo che Sebastiano Lo Monaco, diretto da Yannis Kokkos dopo “Edipo a Colono”, ha sostenuto con sobrietà intimistica, attingendo alla lezione di Salvo Randone, uno dei più autorevoli interpreti del dramma pirandelliano, indossando l’espressività altalenante di una maschera tragicomica, a tratti sardonica, sbeffeggiando e creando nelle menti delle sue “vittime” percorsi paralleli di finzione, disagio e disorientamento.

La messa in scena di Kokkos rappresenta questo disagio concretizzandolo in un architettonico imbellettamento e dunque spingendo alla visione dell’immaginario, che rimane la cifra suggestiva di questa rappresentazione fantastica del concetto di pazzia su cui tuttavia, al di là delle suggestioni estetiche, il drammaturgo girgentino si è soffermato nel raffinato testo, puntualizzando come in questa società convenzionale la finzione imperi sovrana. È pur questa una sorta di follia condivisa a cui siamo tutti condannati, suggerisce la geniale lezione pirandelliana.  Credersi un personaggio storico peraltro realizza un concetto di fuga dalla realtà che sposta indietro infuturandola la ricerca di un’identità, inutilmente cercata dagli intellettuali immersi nel disagio profondo del ’900. Non a caso il protagonista è sine nomine.

 

ENRICO IV

di Luigi Pirandello

regia Yannis Kokkos

con Sebastiano Lo Monaco,
Mariàngeles Torres, Claudio Mazzenga, Rosario Petix, Luca Iacono,

e con
Sergio Mancinelli, Francesco Iaia, Giulia Tomaselli, Marcello Montalto,
Gaetano Tizzano, Tommaso Garrè
scene Yannis Kokkos
costumi Paola Mariani
musiche Dario Arcidiacono
luci Jacopo Pantani
collaboratrice artistica Anne Blancard
aiuto regia Stephan Grögler
aiuto scenografo Cleo Laigret 

produzione Associazione SiciliaTeatro, Teatro Biondo di Palermo, Teatro Stabile di Catania, Teatro Stabile del Veneto

Al Teatro Verga fino al 9 Dicembre


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