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È stata la mano di Dio: una psicanalisi catartica

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Con È stata la mano di Dio Paolo Sorrentino apre un capitolo intimo e doloroso della propria vita e lo consegna senza reticenze al grande pubblico come in una liberatoria seduta di psicanalisi necessaria per riesumare fantasmi non pacificati dell’adolescenza. Non stupisce che abbia vinto a Venezia il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria – né che sia stato selezionato per rappresentare l’Italia agli Oscar 2022 nella sezione “miglior film internazionale”, perché il tratto è felice, la storia delicata, i dialoghi intensi, la recitazione compatta e pregevole, l’ambientazione spruzzata d’affetto, come sempre avviene negli esuli volontari che tornano nei luoghi amati con un carico oscuro di lucida nostalgia.

Giunto fugacemente sul grande schermo per poi passare allo streaming (avallando il perverso meccanismo di agonia del cinema in sala), il film oltrepassa le immagini opulente e le grottesche implicazioni sociopolitiche de La grande bellezza per concedersi uno sprofondamento nei territori noti e battuti delle dinamiche familiari, del disorientamento giovanile, della scoperta delle ipotetiche promesse del destino, dell’esplorazione delle possibili scelte da compiere, della presa d’atto di un patimento devastante che dev’essere scoperchiato e attraversato perché la vita possa continuare a scorrere.

La famiglia Schisa, che è sostanzialmente quella del regista, si muove nella Napoli degli anni Ottanta folgorata dall’arrivo del pibe de oro. È una famiglia come tante, con piccole gioie e sottaciuti tormenti, e lo spettatore impara a conoscerla attraverso lo sguardo limpido del protagonista Fabietto (la focalizzazione, quasi sempre interna e fissa, coincide quindi con quella del regista) alle prese con gli esami di maturità e con un futuro troppo incerto per poter essere atteso con placida curiosità.

Ad una prima parte solare, chiassosa e corale, con molte concessioni al repertorio tipico della commedia napoletana, in cui attori di consumata bravura si esprimono con spontanea naturalezza, si contrappone la seconda, più sussurrata, raccolta, introspettiva, inevitabilmente giocata sulle tappe, talvolta brusche e improvvise altre lente ed impercettibili, che porteranno il colto e taciturno Fabietto – un delicato e tenero Filippo Scotti che ottiene per questa interpretazione il Premio Marcello Mastroianni alla 78ª Mostra Internazionale del Cinema di Venezia – all’emersione dalla coltre d’acqua che rischiava di farlo annegare con il suo strazio di orfano. Acqua che è anche il mare azzurro e straordinario della panoramica d’apertura del film, mare frequentato durante un’infanzia e un’adolescenza affollate di parenti, vicini di casa e conoscenti che costituiscono un’imperdibile galleria di tipi umani che da soli valgono l’intero film.

Al centro la frattura di una duplice morte assurda – i genitori di Sorrentino sono deceduti insieme a causa di una fuga di monossido di carbonio – che coglie di sorpresa come un pugno in pieno volto e che infligge al figlio il dolore aggiunto del permesso negato dai medici dell’ospedale di poter vedere un’ultima volta i genitori morti. E sarà proprio il ricordo martellante di questo commiato sottratto, tirato fuori dal regista mentore Antonio Capuano (Ciro Capano tra il cinico, il paterno e il nichilista) e urlato al mare, la cosa da raccontare, l’episodio degno da consegnare al cinema, il dolore vero dentro il quale raschiare.

Cast in stato di grazia, dunque, diretto da Sorrentino con la consueta cura maniacale, in cui brilla senza offuscare gli straordinari colleghi l’ormai sodale Toni Servillo nel complesso ruolo di Saverio Schisa, marito non proprio esemplare ma sinceramente innamorato della moglie Maria, padre che elargisce perle di saggezza spicciola con la disinvoltura dell’amico scafato, granitico comunista sedotto dalla vita e dalle sue infinite tentazioni, eterno bambino costretto a forza in abiti adulti.

A Teresa Saponangelo è affidato il compito perfettamente assolto di scivolare nel sorriso dolce, nella risata contagiosa e nelle crisi di rabbia (che migrano, attraverso un cordone ombelicale mai reciso, sull’esile corpo del figlio preso da convulsioni durante quelle crisi) di Maria, madre amata con la forza disperata che si rivolge agli affetti strappati, alle figure che nel ricordo assumono un’aura di luce destinata a riverberarsi negli atti e nei pensieri quotidiani.

Luisa Ranieri è la struggente zia Patrizia, richiamo erotico e amore giovanile da proteggere, donna bellissima affamata d’amore e ossessionata dalla mancata maternità che paga un tributo altissimo al marito (efficace Massimiliano Gallo), accecato dal dubbio che la moglie si prostituisca, anche per aver detto la verità (il berretto a sonagli della follia di Pirandello insegna) sul proprio incontro con San Gennaro (un lestofante cui Enzo De Caro dona la credibilità dei suoi candidi occhi azzurri) e con “o munaciello” della tradizione popolare.

Betti Pedrazzi è una superba baronessa Focale, tocca a lei la sequenza più discussa del film, quella dell’iniziazione al sesso del giovane Fabietto, che si concretizza nel dono di una donna anziana senza più sogni ad un ragazzo spezzato dal dolore, un espediente per rimetterlo in sintonia con la vita dopo l’esperienza della morte, un passaggio scabroso, certo, ma sobrio e dolcissimo, in cui l’impossibilità di sedurre con il corpo avvizzito è sostituita dalla potenza perturbante dei gesti e delle parole e dalla magia della finzione.

Biagio Manna, nel ruolo di Armando, è il contrabbandiere dal cuore tenero che svelerà il senso dell’amicizia al solitario Fabietto attraverso la condivisione di una notte spensierata e manigolda nella Napoli poco frequentata dai bravi ragazzi e nello squarcio notturno e deserto di una Capri scenario di apparizioni felliniane, come quella di Kashoggi che si accompagna ad una giovane donna, deludente metafora della triade assoluta dei desideri umani: ricchezza, giovinezza e bellezza. E infine Dora Romano, nei ridicoli e amari panni della superba e altezzosa signora Gentile, l’unica capace di porgere al funerale, come parole di condoglianze, una terzina dantesca tragicamente pertinente, quella che riporta la scritta sulla porta di accesso all’Inferno, la porta che Fabietto ha appena varcato con il suo lutto.

Le parole più delle immagini cuciono la trama, quelle parole così importanti per il Sorrentino sceneggiatore e narratore anche, anzi soprattutto, quando sono poche, scarne, essenziali. Quasi a voler rimarcare il legame tra narrativa e cinema, Sorrentino attinge, per alcuni divertenti aneddoti di famiglia, ad alcuni suoi precedenti libri – i racconti racchiusi in Tony Pagoda e i suoi amici e il romanzo Hanno tutti ragione – che, come acutamente nota il critico Nicola H. Cosentino, “possono essere considerati una specie di incubatrice del regista, una prima stesura di qualcosa che in futuro avrebbe trovato posto nel cinema”.

E davvero certe parole restano scolpite in mente, come quella pronunciata da Marchino (lo scanzonato Marlon Joubert), il fratello di Fabietto, mentre guardano insieme gli allenamenti di Maradona: “perseveranza”, si chiama così ciò che ha reso una divinità il ragazzo argentino in cerca di riscatto. La perseveranza, quella che Marchino comprende di non possedere nei suoi tentativi di fare l’attore, quella che invece bacerà la fronte di Fabietto.

È stata la mano di Dio a salvare Fabietto, questa almeno l’interpretazione dello zio Alfredo (Renato Carpentieri che non lesina la propria solida esperienza teatrale) di quella circostanza fortuita che ha fatto preferire al ragazzo una partita del Napoli in cui rifulge l’astro di Maradona ad un fine settimana nella casa di Roccaraso con i genitori. È stata la mano di Dio, si potrebbe aggiungere, a guidarlo nelle intricate traiettorie che avrebbero potuto trasformarsi in labirinti se fossero state percorse da passi instabili.

Il treno si allontana da Napoli verso la città eterna con lo sguardo fiducioso del protagonista che ascolta in cuffia Napul’è di Pino Daniele. Una città nel cuore e un’altra nella mente.

Com’è andata a finire è sotto gli occhi di tutti.

È stata la mano di Dio

Data di uscita: 24 novembre 2021

Genere: Drammatico, Biografico

Anno: 2021

Regia: Paolo Sorrentino

Attori: Filippo Scotti, Toni Servillo, Teresa Saponangelo, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Ciro Capano, Enzo Decaro, Carmen Pommella, Biagio Manna, Lino Musella, Alfonso Perugini, Sofya Gershevich, Paolo Spezzaferri, Rossella Di Lucca, Antonio Speranza

Paese: Italia

Durata: 130 min.

Distribuzione: Netflix

Sceneggiatura: Paolo Sorrentino

Fotografia: Daria D’Antonio

Montaggio: Cristiano Travaglioli

Produzione: The Apartment Pictures

‘È stata la mano di Dio’: una psicanalisi catartica


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