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Depistaggi e verità nascoste in Italia: il caso esemplare di Attilio Manca

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Al secondo incontro del corso di formazione per docenti piemontesi, organizzato congiuntamente dal liceo artistico torinese “Renato Cottini” e dalla sezione torinese “Paolo Borsellino” del movimento delle Agende rosse, è stato il turno dell’avvocato Fabio Repici, noto per la difesa legale di molti famigliari vittime di mafia: Campagna, Alfano, Parmaliana, Mormile, Manca, Caccia, Borsellino, tra gli altri. Sabato 22 gennaio, in mattinata e in streaming, l’avvocato ha affrontato il tema dei depistaggi che hanno caratterizzato la nostra storia repubblicana, focalizzando in particolare l’attenzione sulla vicenda paradigmatica dell’urologo siciliano Attilio Manca.

Il tema è in linea, di fatto, con il filo rosso che guida l’intero corso di formazione, il cui titolo è “Mafie e dintorni”. Ecco, i “dintorni” sono l’oggetto reale di interesse degli incontri previsti. I dintorni rappresentano, di fatto, l’elemento esterno alle mafie che ne ha consentito il plurisecolare sviluppo e la tenuta di lunga durata. Senza il fiancheggiamento, la collaborazione, la complicità, le collusioni, le cointeressenze o, ancora, l’indifferenza di alcuni segmenti della società civile, della pubblica amministrazione, dei poteri nazionali e locali e della Chiesa cattolica, è indubbio che le organizzazioni mafiose non avrebbero potuto radicarsi e consolidare il proprio potere per un tempo così lungo. È stato fatto notare che pirati e briganti disponevano di una potenza di fuoco non inferiore, eppure, quanto lo Stato decise di porre fine a quelle compagini, riuscì a estirparle, ripristinando il monopolio della forza e del potere legale.

Dunque? La risposta, per qualche studioso, è proprio nei legami saldi con il potere: «il mafioso è nella storia – scrive Isaia Sales – il superamento del bandito, del brigante e del pirata. Egli ha successo permanente perché si relaziona con il potere costituito e non si contrappone ad esso, sia sul piano politico, sia su quello economico che su quello sociale».

Ecco, è a partire da questa ipotesi di lavoro che il corso di formazione ha cercato di orientare gli interventi dei relatori. Se nel precedente incontro, il prof. Rocco Sciarrone ha affrontato la questione dell’area grigia nella creazione delle mafie del Nord, ossia quella nebulosa in cui si incontrano gli interessi differenti dei mafiosi e di altri attori sociali (professionisti, imprenditori, politici, maestranze ecc.), la relazione dell’avvocato Repici ha cercato di illuminare l’ambito degli intrecci fra potere costituito e gruppi criminali.

L’intervento dell’avvocato si è strutturato in due distinti momenti: una prima parte, più breve e sintetica, volta a definire il problema del delitto di depistaggio e una seconda parte, un poco più corposa, nella quale il relatore ha illustrato la vicenda Manca. Il primo contenuto importante offerto ai docenti è di natura etimologica e terminologica. Verità, ricorda Repici, è termine che i Greci antichi traducevano con l’espressione “alèètheia”, la cui traduzione letterale può essere resa con “non nascondimento”, “non elusione”. In tale accezione, la verità risulta un bene negativo, un qualcosa la cui visibilità richiede uno sforzo per eliminare i nascondimenti.

In termini giudiziari, le attività volte a occultare, per intero o in modo parziale, la verità, a sviarla, a offuscare la reale natura di un atto delittuoso sono state definite “depistaggi”. Tuttavia, precisa l’avvocato, per quanto la parola depistaggi fosse presente come lemma nei vocabolari e nell’uso comune, soprattutto a partire dagli anni feroci della strategia della tensione, essa non era presente nel nostro ordinamento giuridico. Perché ciò accadesse, perché il depistaggio entrasse cioè come reato nel codice penale, è stato necessario attendere la legge n. 133 del luglio 2016: una legge il cui primo firmatario fu l’allora parlamentare Paolo Bolognesi, cioè il presidente dell’associazione dei famigliari delle vittime della stazione di Bologna. È un dato importante questo, perché «nella storia del nostro Paese – precisa Repici – non di rado l’impegno e lo sforzo per la ricerca della verità su fatti che interessano tutta la collettività (…) hanno dovuto sobbarcarseli i parenti delle vittime anziché le nostre istituzioni».

Elencare i depistaggi presenti nella nostra storia repubblicana sarebbe già di per sé oneroso, perché richiederebbe qualche ora anche la semplice enumerazione nominativa dei singoli casi. Per tale ragione, il relatore rievoca alcuni fatti esemplari, a partire dalla strage di piazza Fontana del 1969 che, fin dall’inizio delle indagini, fu accompagnata da un’attività di sviamento; tra gli altri aspetti, ricorda gli sforzi investigativi per sostenere la pista anarchica e il tragico caso di Giuseppe Pinelli, così come rammenta l’esfiltrazione dal nostro Paese verso l’estero di soggetti indiziati della strage a opera di figure apicali dei nostri servizi segreti. Né estranea al depistaggio fu la drammatica vicenda della stazione di Bologna: vi è in tal senso una sentenza definitiva e irrevocabile per calunnia a carico di Licio Gelli e di alcuni responsabili del Sismi, oltre che di Francesco Pazienza, consulente dei servizi segreti militari.

Il sommario elenco del relatore prosegue, poi, con alcune vicende di cui si è occupato per ragioni professionali: cita, fra gli altri, il caso di Graziella Campagna, giovane uccisa nel 1985 in provincia di Messina, i moventi della cui morte furono ascritti dagli investigatori a un’unica “sconclusionata” pista passionale. Ne approfitta, Repici, per precisare come in Sicilia sia piuttosto lungo l’elenco delle vittime innocenti di mafia il cui assassinio sia stato ricondotto, nelle prima fasi delle indagini, al calderone torbido del delitto passionale. Amanti traditi, mogli tradite, mariti traditi o soggetti, in qualche modo, esasperati da ragioni sentimentali sarebbero all’origine, sull’isola, di una quantità di omicidi ben superiore a quelli perpetuati da Cosa nostra. La stessa morte del poliziotto Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio fu interpretata dalla squadra mobile diretta da Arnaldo La Barbera in chiave passionale. Contemporaneamente a ciò, gli appunti conservati dall’agente della polizia di Stato nella propria abitazione furono trafugati da un ispettore, suo amico, e distrutti, come lo stesso ispettore rivelò inconsapevolmente nel corso di un’intercettazione ambientale del 2008. Nessuna pena, per prescrizione del reato, fu comminata all’ispettore in questione, sottolinea l’avvocato Repici.

E, sempre in tema di sviamenti e di depistaggi, viene immediato evocare il caso dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, della sua sottrazione, dell’evidente dato oggettivo in base al quale la borsa del magistrato appena fatto saltare in aria fu prelevata dall’allora capitano dei carabinieri, Giovanni Arcangioli, poi salito di grado, come osserva, non senza un tono caustico, l’avvocato. Mai quell’ufficiale né altri hanno detto al Paese cosa fu fatto di quell’agenda.

L’enumerazione di Repici si conclude con un sommario e veloce riferimento, una citazione appena, al recente caso di Serena Mollicone e alla sua morte in una caserma dei carabinieri, così come sostiene l’accusa.

Quali elementi comuni hanno le vicende sopra enumerate e quelle che, per ragioni di tempo, Repici ha dovuto omettere? L’avvocato giunge alla risposta dopo un’interrogazione retorica: «c’è qualcuno di voi che ha mai sentito di un’attività di depistaggio in relazione a furti commessi da extracomunitari al mercato o in case private? C’è qualcuno di voi che ha sentito di attività di depistaggio per delitti commessi o di cui erano accusati soggetti ai margini della società? Io non ne conosco nessuno».

È chiara, quindi, la risposta che giunge netta e senza ambiguità: il depistaggio è un reato che ha a che vedere con il potere, perché è nella natura stessa del delitto, così come da articolo 375 del codice penale, che a compierlo sia necessariamente un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio. Non può essere cioè commesso da un comune cittadino.

La prima qualità del depistaggio, così come emerge dall’analisi dei fatti, è dunque quella di essere un «delitto del potere, commesso nell’interesse degli assetti del potere». Il simbolo più rappresentativo del depistaggio come occultamento della verità e dello sforzo di superare tale verità da tenere occultata è, in termini letterari e secondo le parole di Repici, il bambino della fiaba di Andersen, “I panni dell’imperatore”. Davanti alla pavidità o al servilismo o alla cecità degli adulti, il piccolo protagonista della fiaba fu l’unico ad affermare con forza e chiarezza che l’imperatore non aveva abiti nuovi, ma era completamente nudo.

Il bambino di questa fiaba, nella nostra storia nazionale, ha assunto i panni di tante persone che, per decenni, hanno dovuto impegnarsi nella ricerca della verità su gravi delitti. Delitti dalla verità indicibile, agganciati a soggetti istituzionali, disturbati dall’idea che qualcuno parlasse dell’imperatore nudo.

Depistaggio uguale potere. Questa è l’equazione che il relatore ritiene difficile da confutare. A ciò, Repici aggiunge un ulteriore aspetto: le organizzazioni mafiose, in alcuni territori, «detengono spesso il monopolio dell’esercizio della violenza» e, in tal senso, le mafie sono «soggetti partecipi al potere, anche al potere ufficiale». Ed è a partire da questa legge generale che Repici introduce la seconda parte della sua trattazione, ossia il caso Manca. Lo fa a partire da qualche dato biografico: la provenienza da Barcellona Pozzo di Gotto, la “Corleone del terzo millennio”, l’attività medica con la specializzazione in urologia presso l’ospedale Belcolle di Viterbo, l’abilità nell’operazione del tumore alla prostata in laparoscopia, primo chirurgo in Italia a praticarla, il rinvenimento del cadavere il 12 febbraio del 2004, dopo che il medico non si era presentato al nosocomio per un intervento.

Per molti lettori, la vicenda Manca è nota, così come sono note le ambiguità investigative, a partire dalla direzione univoca presa dalle indagini: la morte del medico fu ascritta, infatti, alla scelta dell’uomo di inocularsi due dosi di eroina in combinazione fatale con un ingente quantitativo di sedativo. Dosi di eroina procurategli da Monica Mileti, l’unica coinvolta nelle indagini.

Repici sciorina le tante, troppe incongruenze che hanno caratterizzato l’analisi della morte dell’urologo da parte degli inquirenti: il fatto che si sia iniettato le dosi di eroina, da mancino puro qual era, nel braccio sinistro, con un’acrobazia davvero incomprensibile per un individuo che teneva il cellulare con la mano sinistra anche se ascoltava con l’orecchio destro; la posizione innaturale del cadavere sul letto per un uomo che sarebbe morto per overdose, ossia placidamente disteso e composto con le braccia parallele al corpo; le pantofole ordinate con cura accanto al letto e non perse per strada da qualcuno crollato sul letto morente; le siringhe prive di impronte digitali e debitamente chiuse dal tappo di protezione; la mancanza di oggetti utili per sciogliere l’eroina, quali il cucchiaino, o la stagnola contenente la droga; la presenza di un’impronta del cugino, Ugo Manca, nell’appartamento dell’urologo a fronte della mancanza di impronte di amici o famigliari di Attilio; il buco nero nel giorno della morte, ricondotto non all’11 ma al 10 febbraio nonostante una vicina avesse sentito la porta di casa del giovane chiudersi la sera successiva al dieci di quel mese.

A dispetto di tutto ciò, la procura di Viterbo elaborò un’equazione inossidabile: Manca ha incontrato la Mileti a Roma, fatto accertato, la Mileti ha avuto precedenti generici legati alle sostanze psicotrope, dunque Manca ha preso da lei l’eroina ed è morto per il mix fatale. Punto.

Quelle della procura di Viterbo su Manca furono delle indagini su Attilio Manca stesso; lacunose e largamente incomplete e chiuse dall’ipotesi del suicidio di un eroinomane, a fronte delle dichiarazioni di colleghi e amici che avevano largamente negato tale dipendenza del giovane dalla droga.

Repici sposta poi l’attenzione su Barcellona Pozzo di Gotto, sulla sua vischiosa realtà mafiosa, su Rosario Cattafi, sullo stesso Ugo Manca, amico di Cattafi, e su un collaboratore di giustizia, attendibile agli occhi degli inquirenti, quale Carmelo D’Amico che, alcuni anni dopo la morte dell’urologo, disse che tale decesso doveva essere inteso come un omicidio: l’eroina gli era stata iniettata per assassinarlo da un killer legato ai servizi segreti.

D’Amico spiega anche il perché di quell’assassinio: Manca sarebbe stato coinvolto, attraverso la mediazione di Cattafi, nelle cure e nell’operazione al tumore alla prostata dell’allora latitante Bernardo Provenzano, ricoverato sotto falso nome in una clinica privata della Francia meridionale. Dichiarazioni, quelle del D’Amico, a cui vanno aggiunte quelle di altri collaboratori di giustizia.

Il quadro è arricchito dalla questione del processo «farsesco» in primo grado a Monica Mileti: processo dal quale furono allontanate la parti civili – cioè i famigliari di Attilio Manca – e nel quale la difesa della Mileti non chiamò a testimoniare i collaboratori di giustizia che avrebbero potuto scagionare l’imputata. Nel frattempo, Repici e i Manca si rivolsero alla Dda di Roma, competente per delitto di mafia, i cui vertici erano gli stessi che si erano occupati a Palermo, dieci anni prima, della latitanza di Provenzano. Nuovo buco nell’acqua, indagine archiviata contro ignoti, un nulla di fatto, nessuno fu iscritto nel registro degli indagati: Manca morì per essersi iniettato la droga. Così si chiuse a Roma l’inchiesta sull’omicidio a sfondo mafioso dell’urologo.

La vicenda non finisce qui, però: da un’intervista del giornalista Paolo Borrometi al difensore di Monica Mileti, pubblicata nel gennaio 2021, emerge che la procura di Viterbo avrebbe offerto alla difesa della donna, in cambio della confessione del reato, «un’ipotesi di contestazione di reato attenuata, che avrebbe implicato la prescrizione del reato e così il proscioglimento della sua assistita». Ma la Mileti, comprensibilmente, non si sentì di confessare quanto non aveva commesso. Di fatto, la Corte d’Appello di Roma, nel febbraio 2021, ha assolto la donna perché il fatto non sussiste.

Il relatore, nella sua disamina, inserisce ancora il crescente interesse dell’opinione pubblica per la vicenda Manca, tanto da destare l’attenzione della politica e, in particolare, della Commissione parlamentare antimafia presieduta, nel 2014, da Rosy Bindi. Dopo le audizioni, presidente e vice-presidente della Commissione, in un primo momento, osservarono, in conferenza stampa, che la morte dell’urologo non poteva ascriversi a un suicidio, ma che si trattava di omicidio. Fin quando, come «con un cambio di vento e di clima», dopo pochi mesi la Commissione antimafia cambiò indirizzo e sottoscrisse, nella relazione conclusiva di maggioranza, le tesi della Dda di Roma: Manca è morto da eroinomane.

Cosa contribuì al cambiamento, per così dire, di umore della Commissione, Repici preferisce tacerlo, sia per ragioni di tempo sia perché «sarebbe particolarmente spiacevole per lo stato di salute delle nostre istituzioni».

Come concludere, prima delle domande dei docenti? Quello di Manca, ripete Repici, è un delitto che investe ambiti del potere, che apre la questione del buco nero delle cure e degli spostamenti del latitante Provenzano, mai chiariti dalla giustizia, che, alla pari di altri fatti efferati viziati da potenti depistaggi, richiederà decenni per poter fare affiorare la verità. Ciò in un Paese, come dirà rispondendo agli insegnanti, le cui madri piangenti – Manca, Impastato, fra le altre – ricordano quelle argentine della Plaza de Mayo, pur non essendo il nostro uno Stato vissuto sotto il tacco di una dittatura.

Non sotto la dittatura, certo, ma in una democrazia parziale.


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