Beppe Alfano ucciso dalla mafia 29 anni fa. La famiglia e i legali, in grande solitudine, continuano ad inseguire la verità

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Anche tra i giornalisti uccisi per mano delle mafie ci sono quelli di Serie A e quelli di Serie B. Ad alcuni viene dato, giustamente, spazio non solo in occasione della ricorrenza, altri, ingiustamente, vengono ignorati anche nella giornata che dovrebbe essere per tutti della memoria, mentre lo è solo per la famiglia e pochi altri. E’ il caso di Giuseppe Aldo Alfano detto Beppe, il giornalista, corrispondente della Sicilia di Catania, ammazzato ventinove anni fa con tre colpi di pistola mentre era in macchina nei pressi di casa a Barcellona Pozzo di Gotto in provincia di Messina, la sera dell’8 gennaio 1993. Il perché i grandi giornali e i tg nazionali “dimenticano” è semplice: Alfano aveva avuto a che fare politicamente con la destra, prima con Ordine Nuovo poi con il Msi-Dn, ma la politica dovrebbe passare in secondo piano. Alfano è stato ucciso dalla mafia per essere stato un giornalista dalla schiena dritta, tosto, determinato, per lui la legge andava sempre rispettata e lo Stato era lo Stato.

Le sue inchieste avevano squarciato la coltre di ipocrisia che nascondeva la presenza della mafia nel messinese, provincia sempre stata raccontata come zona franca senza la presenza di Cosa nostra. Condannava il trasformismo di certi lavoratori dell’informazione che da cani da guardia della democrazia erano diventati cani da guardia del padrone. Per lui, che non voltava le spalle ai fatti ma li inseguiva, la carriera non esisteva, veniva pagato 5 mila lire a pezzo (il tesserino dell’Ordine gli è stato consegnato ad honorem dopo la morte). Per far vivere la famiglia non era sufficiente scrivere, insegnava Educazione tecnica alla scuola media di Terme Vigliatore. Il mestiere del cronista lo conosceva bene, lo sapevano i tanti lettori siciliani che lo seguivano, purtroppo, non solo loro. Scriveva degli affari economici della mafia, degli appalti e subappalti irregolari, del commercio di agrumi, del traffico di armi e di droga, degli intrecci tra cosche, massoneria e amministratori locali corrotti, citando tutti per nome e cognome.

Durante un’inchiesta aveva scoperto che la criminalità organizzata locale aveva come riferimento Nitto Santapaola considerato uno dei boss più potenti e sanguinari, poi condannato all’ergastolo per l’omicidio del giornalista Pippo Fava e per le stragi di Capaci e via D’Amelio, era riuscito a scoprire che il boss si nascondeva a Barcellona Pozzo di Gotto. Questo, probabilmente, gli è costato la vita. Alfano immediatamente informa il giudice Olindo Canali, sostituto procuratore al Tribunale della cittadina, ma il magistrato non ritiene opportuno indagare e, poco dopo, il giornalista viene ammazzato. Il peggio Canali lo compie durante l’indagine sull’omicidio “dimenticando”, per la seconda volta, le informazioni che la vittima gli aveva passato. Per l’assassinio sono stati condannati nel 2006: Nino Merlino l’esecutore materiale e il boss mafioso Giuseppe Gullotti accusato di essere il mandante. Nel 2019 la Corte d’appello di Reggio Calabria ha consentito la revisione del processo su istanza dei legali di Gullotta. Il processo è alla vigilia della sentenza nonostante che non sia ancora concluso il procedimento per corruzione nei confronti del solito magistrato Olindo Canali accusato di essere stato pagato da Gullotta per fargli ottenere la revisione stessa del processo. La famiglia e i suoi legali, in grande solitudine, continuano ad inseguire la verità. Sin dall’inizio hanno dovuto lottare contro i depistaggi e la macchina del fango che si è messa in moto immediatamente dopo l’omicidio. E dalle istituzioni? Silenzio, questa è la notizia!


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