I due tragici eventi accaduti negli ultimi dieci giorni, a una distanza di pochi chilometri l’uno dall’altro, hanno in comune la stessa disperazione e richiamano altre situazioni che si verificano ogni giorno, in opgni parte del mondo.
Il suicidio nel CPR di Gradisca d’Isonzo e la morte di una bambina curda nel fiume Dragogna scuotono le coscienze, perché è fin troppo evidente come in questi casi non si possa utilizzare il termine “fatalità”.
In una notte di alcuni giorni fa, un giovane si è tolto la vita. Era in attesa di rimpatrio, rinchiuso in quella specie di lager, istituito ai tempi di un governo di cosiddetto centro sinistra con il dolce nome di Centro di Temporanea Permanenza e Accoglienza(CPTA). Con il centro destra, prima è caduta l’Accoglienza (CPT), poi è stato chiamato, molto più chiaramente, Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE). Ora il nome è di nuovo più temperato, si chiama Centro Per il Rimpatrio (CPR). Tanti concetti, ma la sostanza non cambia. E’ un luogo di detenzione, caratterizzato da impressionanti sbarre di ferro che dividono una stanza dall’altra. Soprattutto è un ambiente nel quale non esiste la speranza, perché chi viene rinchiuso non soltanto deve sopportare una dura forma di detenzione, ma si prepara al ritorno al Paese da dove era partito. Una vita di risparmi per affrontare un viaggio pieno di rischi e pericoli, attraverso il deserto, valicando il mare o nei sentieri tra i boschi dei Balcani. Tutto è perduto, non resta che tornare senza nulla in mano, senza neppure i mezzi per poter ricominciare.
Non c’è da meravigliarsi che in un contesto del genere le persone soccombano nella lotta per la sopravvivenza, soffocate dalla prigionia e dalla disperazione. Non è certo il primo caso verificatosi nei CPR in Italia. E anche Gradisca deve segnare la terza vittima, dopo Vahktang Enukidze e Orgest Turia, morti ne 2020 in circostanze mai chiarite. Questa volta, oltre al dolore per la fine di una vita, c’è anche lo sconcerto per la cortina di silenzio stesa sull’episodio. Dieci giorni dopo, non è dato di sapere il nome della persona, c’è incertezza sulla sua nazionalità e la motivazione del decesso non è stata mai spiegata se non con la parola “suicidio”. Ammesso che sia così, perché quest’uomo si è suicidato? E’ stato davvero un gesto disperato? Oppure si è aggiunto anche il desiderio di compiere un gesto per urlare al mondo “esterno” l’ingiustizia di una condizione umanamente inaccettabile? In ogni caso, la privazione perfino dell’identità anagrafica rende ancor più angosciante l’avvenimento e rafforza l’unica soluzione possibile, affinché quello che è accaduto non si ripeta “mai più”. Un Paese civile non può contemplare nel proprio ordinamento un istituto come il Centro Per il Rimpatrio, troppo lontano da luogo per affrontare i problemi delle persone, troppo vicino a un vero e proprio lager. Occorre mettere mano quanto prima alle datate e ormai disumane leggi sull’immigrazione, è l’unico modo non retorico per ricordare e dare voce al “migrante ignoto” deceduto a Gradisca e a migliaia di altri nelle sue stesse condizioni.
Ad aggravare il senso di impotenza, è giunta la notizia della morte di una bambina kurda nel fiume Dragogna, lungo il confine – interno all’Unione Europea!!! – tra la Slovenia e la Croazia. E’una frontiera da tempo blindata, con chilometri di reti che attraversano le colline. Il filo spinato è abbastanza alto, in modo che gli animali non si impiglino e non si feriscano. E’ curiosa questa premura, di certo non altrettanto dedicata agli esseri umani. Una famiglia, dopo aver percorso la cosiddetta rotta balcanica e dopo aver consegnato tutti i propri averi ad accompagnatori specializzati e senza scrupoli, tenta di notte l’attraversamento delle acque gelide. La piccola sfugge alla stretta della madre e scompare nei flutti. Sarà ritrovata solo due giorni dopo e ora l’attende la sepoltura nel Kurdistan. Sì, perché la polizia slovena ha respinto senza alcuna pietà il resto dei familiari, dopo il loro triste approdo sulla riva di quello che essi pensavano essere il regno della Libertà.
Perché una famiglia affronta rischi così gravi per compiere il “viaggio della speranza”? Sono tantissime le donne e i bambini che trascorrono mesi nei campi del Nord della Bosnia, tentando ogni tanto il “game” per valicare la frontiera con la Croazia. Vivono nel gelo dell’inverno e nel caldo insopportabile dell’estate, soffrono di ogni sorta di malattie e quando riescono a passare oltre, eludendo i controlli, hanno un incubo che si chiama “respingimento”. Sì, fuggono dalla fame, dalla persecuzione attuata sistematicamente dalla Turchia nei confronti dei curdi, da un futuro ritenuto impossibile. Investono tutto ciò che hanno in questo cammino per la sopravvivenza e il loro terrore è di essere respinti. I respingimenti sono illegali, non potrebbero avvenire all’interno del territorio dell’Unione Europea. Invece esistono, dalla Croazia alla Bosnia con tanto di percosse e torture per i malcapitati, dalla Slovenia alla Croazia, con il tacito consenso delle autorità continentali, perfino nei mesi scorsi dall’Italia alla Slovenia, sulla base di trattati ormai superati, sottoscritti prima dell’ingresso della Repubblica slovena nell’Unione.
La paura dei respingimenti è la vera causa delle tragedie che accadono quotidianamente sulle rotte ei migranti e tale purtroppo giustificato timore può essere superato in un unico modo, attraverso il rispetto delle leggi, il considerarle fondamento dei fatti e non soltanto delle belle parole.
Ormai si sta vedendo di tutto, non ultima l’incredibile strumentalizzazione del dolore attuata dal dittatore Lukashenko in Bielorussia che prima favorisce l’arrivo dei profughi, ben sapendo del blocco attuato dalla Polonia e poi impedisce a essi di tornare indietro fermandoli con le armi.
E’ una guerra senza quartiere, nella quale però i contendenti non combattono alla pari. Il gigantesco patrimonio economico e la potenzialità di minaccia militare dell’Occidente si scatenano contro milioni di poveri disarmati che bussano alle porte sigillate per esercitare soltanto il loro semplice ed elementare diritto essenziale alla Vita.