Una Repubblica fondata sul lavoro, precario. I lavoratori precari, già un numero enorme, sono addirittura aumentati con il Covid. Un giornalista non più propriamente giovane racconta: «Ho 35 anni, lavoro da 10. Aspetto ancora un contratto di lavoro stabile!». Anche i precari si dividono in serie A e serie B: lui è in B. «Il perché è semplice: non ho nemmeno un contratto a termine, sono nell’inferno dei senza terra!». La definizione professionale è altisonante: libero professionista, free lance, perché in inglese fa fino. Ma vive «una vita infernale».
Entra nei particolari di una vita senza un futuro: «Lavoro per due quotidiani, una tv privata, una radio locale, un sito Internet e due grandi aziende nazionali. Non mi fermo un attimo, con tutti questi lavori a stento riesco a sopravvivere e a pagare le bollette della luce e del gas. Sono un cosiddetto collaboratore esterno: svolgo gran parte del lavoro che c’è da fare in redazione, ma a prezzi infimi…».
I compensi sono un disastro, da fame. Fa un esempio: «Una azienda commerciale mi paga 3,5 euro a pezzo, quello che si dice un articolo standard composto di 300 parole!». È sconsolato ma tenace: «Lo so che è pochissimo, ma lo faccio perché ne ho bisogno non solo per un problema economico: così allargo il mio perimetro di lavoro e ci potrebbe scappare in futuro l’occasione buona per avere un contratto a tempo indeterminato».
L’informazione è uno dei settori più disastrati nell’economia italiana: i quotidiani e i settimanali non vendono, chiudono. I giornali, cartacei e digitali, che restano hanno tagliato all’osso gli organici e utilizzano ampiamente i collaboratori esterni: giornalisti sfruttati senza diritti. Le televisioni non stanno molto meglio. Anche il mercato degli uffici stampa di enti e aziende (un tempo snobbato) si è ristretto ed è diventato molto difficile.
Un pezzo, in genere, viene pagato 10 euro lordi da una testata e, alle volte, anche meno. Non si sa bene quanti siano i giornalisti professionisti e pubblicisti disoccupati. Il buio è ancora più fitto sul numero dei giornalisti precari di serie A e di serie B. In maggioranza sono giovani ma non mancano i cinquantenni. Ci sono state proteste, scioperi ma con scarsissimi risultati.
I lavoratori precari sono una delle priorità di Mario Draghi. Il presidente del Consiglio non li ha dimenticati nella conferenza stampa di fine anno: «La precarietà del lavoro è certamente uno dei motivi per cui non si mette su famiglia, è uno dei temi aperti nel confronto con le forze sociali».
Il lavoro precario senza diritti (assieme all’occupazione in nero) è una delle peggiori conseguenze della globalizzazione economica e della religione del liberismo praticata dagli anni ‘90. Riguarda tutti i settori: informazione, industria, agricoltura, commercio, servizi, scuola, sanità. La concorrenza cinese e indiana, a prezzi bassissimi, ha causato una mattanza di fabbriche in Europa e negli Stati Uniti provocando disoccupazione e una caduta dei salari. Ma il colpo più duro l’ha subito l’Italia perché molte volte non c’è stata una risposta con gli investimenti per aumentare qualità e produttività.
Il Coronavirus ha ulteriormente aggravato il dramma. Uno studio di Nicolò Giangrande elaborato per la fondazione Di Vittorio dà dei numeri spaventosi: in Italia ci sono oltre 5 milioni di lavoratori precari «con forte disagio salariale» da sommare a 2,5 milioni di disoccupati e alla valanga di cassaintegrati.
Una fucina di precariato è la scuola. La Cisl Scuola ha calcolato un boom degli insegnanti precari con quota 220.000 supplenze nel 2021-2022. Un’altra fucina di precari è la sanità. L’emergenza Coronavirus però ha portato all’assunzione in pianta stabile di oltre 50.000 precari con contratto a termine, tra medici e infermieri.
Tipica figura di precario è il rider. Il fenomeno dei fattorini che consegnano i pasti su biciclette e motorini è esploso durante il Covid. Non esistono cifre precise: qualcuno parla di 60.000 rider ma potrebbero essere più di 100.000. In genere sono ragazzi (ma non mancano anche i cinquantenni) che pedalano tutto il giorno per 2,5 euro a consegna. Dopo scioperi, proteste e manifestazioni qualcuno è stato assunto: ha conquistato perfino malattie e ferie pagate, ma si tratta di una minoranza. Per la grande maggioranza i ciclofattorini sono lavoratori autonomi che schizzano per le città con qualunque tempo: col gelo e con il caldo torrido sotto l’incubo degli ordini di consegna arrivati tramite il telefonino. Anche in questo caso il buio del presente si proietta in un futuro ancora più buio.
Adesso però si è aperta una luce nel buio. La commissione europea considera i rider lavoratori dipendenti e non autonomi se eseguono le direttive delle piattaforme Internet delle varie società. Bruxelles ha presentato una proposta di direttiva per riconoscere ai rider e agli altri precari al lavoro per le piattaforme web un contratto da dipendente se ne sussistono i requisiti. È in pista anche il salario minimo. In caso di approvazione della direttiva i vari Stati europei dovranno emanare una apposita normativa di lavoro per i ciclofattorini e per gli altri precari delle piattaforme digitali. Finalmente si muove qualcosa.