Piergiorgio Welby se ne andò quindici anni fa, pochi giorni prima di Natale, al termine di un’esistenza drammatica, segnata dalla SLA e, negli ultimi anni, da indicibili sofferenze che lo avevano indotto persino a scrivere all’allora presidente Napolitano per ribadire che chiedere di morire, nel suo caso, non era un rifiuto nei confronti della vita ma, al contrario, un atto d’amore nei confronti della stessa. Ci troviamo quindici anni dopo a dover fare i conti con la necessità di affidarci a un referendum per sancire il sacrosanto diritto all’eutanasia, dato che il Parlamento, sia detto senza alcun cedimento all’anti-politica e a qualsivoglia forma di populismo, è troppo impegnato a ragionare sui numeri della manovra e sul pallottoliere relativo al prossimo Capo dello Stato per prendersi cura di un tema essenziale come il suicidio medicalmente assistito. Il che dimostra quanto sia diventata siderale la distanza fra i problemi della politica e le esigenze del cosiddetto “Paese reale”. Ho sempre rifuggito queste categorie, ho sempre evitato di cedere a queste distinzioni, anche perché ero fermamente convinto che la classe dirigente non fosse né migliore né peggiore della cittadinanza che rappresentava ma ne fosse lo specchio fedele. In questa fase storica, con un certo rammarico, sono costretto a constatare che non è più così.
La corsa a firmare i referendum sull’eutanasia legale e sulla cannabis, la partecipazione dei giovani a molteplici manifestazioni, la passione civile che si è manifestata in mille luoghi e l’entusiasmo che abbiamo visto ovunque, specie dopo le prime riaperture, in seguito alla fase più acuta della pandemia, tutto questo ci dice che purtroppo il distacco dei nominati dagli elettori è diventato ormai allarmante. Il 2006, anno della morte di Welby, è stato infatti caratterizzato, in primavera, dalle prime elezioni in cui siamo stati privati del diritto di scegliere i nostri rappresentanti. Tre lustri dopo ci rendiamo conto delle conseguenze: istituzioni fragili, screditate e disprezzate da una percentuale inquietante di cittadini, partiti debolissimi, gruppi parlamentari sfarinati e la prospettiva, assai poco edificante, di preoccupanti difficoltà per eleggere il successore di Mattarella, mentre i temi cruciali per il futuro della società si accumulano di giorno in giorno, tristemente irrisolti.
Ricordare il dramma di Welby, la sua richiesta di staccare i macchinari che lo tenevano in vita, il coraggio di sua moglie Mina, l’impegno dei Radicali e la lunga e coraggiosa battaglia di Marco Cappato, degno erede del miglior Pannella, per giungere a leggi di puro buonsenso che ancora non sono riuscite a superare gli ostacoli dell’ipocrisia e del conservatorismo che, ahinoi, caratterizzano la destra italiana è dunque un dovere morale. Al tempo stesso, e non certo per par condicio, è indispensabile riflettere sulle eccessive timidezze di vasti settori della sinistra, da almeno vent’anni incapace di proporre un’agenda alternativa a quella dettata dal pensiero unico liberista.
Dover star qui a invocare ancora norme di civiltà, dover ricorrere allo strumento estremo del referendum per conquistare diritti che il Parlamento non è più in grado, da decenni, di assicurare, dover prendere atto di una solitudine che rende sempre più difficile il nostro essere comunità, queste caratteristiche del contesto politico attuale mi costringono, insomma, a prendere atto che siamo al cospetto della più grave sconfitta della storia repubblicana. Una sconfitta collettiva, un degrado pubblico senza precedenti, un abbandono della comunità che non lascia aperto alcuno spiraglio. E così, siamo costretti a muoverci in prima persona, rinunciando momentamente al valore essenziale della rappresentanza e vedendoci obbligati a svolgere quel ruolo di supplenza che la Costituzione, per fortuna, attribuisce a noi cittadini, consentendoci a essere parte attiva delle decisioni e di opporci all’ottusità di chi vive ormai fuori dal mondo.
Sinceramente, avremmo sognato ben altro scenario per rendere omaggio a Piergiorgio Welby e alla sua battaglia. Tuttavia, continueremo a lottare in suo nome e in nome di tutti coloro che intendono ribadire l’importanza dei diritti contro ogni sopruso e privazione degli stessi.
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