“Il nostro Natale”, di Abel Ferrara, Usa-Fra, 2001.
Con Lillo Brancato jr., Drea De Matteo, Ice-T, Victor Argo.
La famiglia e la redenzione sono due tra i motivi portanti di tutto il cinema di Abel Ferrara, autore di capolavori come “Il cattivo tenente” e “The Addiction”. Quale migliore occasione, per lui, di inserire questi temi nei giorni della festa familiare per eccellenza, il Natale. Marito e moglie, lui dominicano, lei portoricana, sono impegnati nella spasmodica ricerca del regalo per l’amata figlioletta, la famosa e contesa bambola “Party girl”. Nei negozi non si trova più. La madre è disposta a pagare una cifra pur di averla. Contemporaneamente, il padre viene rapito da un clan rivale. Sì, la loro attività è lo spaccio di eroina, il commercio della morte. Ambientato in una New York incombente e colorata, il film di Ferrara è la sintesi simbolica del nostro mondo, in cui la felicità è, inevitabilmente, a discapito degli altri, del nostro simile. L’amore non è più universale, tra gli uomini, è oramai un affare privato, il “Nostro” Natale appunto. La natività, la rinascita arriva, forse, nel finale, in quello sguardo tra marito e moglie che cancella ogni egoismo e rimette in gioco l’umano. La normalità del male viene spezzata dalla paura della morte di lui, dalla consapevolezza della fine di tutto, e la redenzione è l’ultima occasione di rinascita insieme individuale e collettiva. E questo Ferrara sembra dirlo più a noi spettatori che non ai suoi protagonisti. Il suo è un cinema evangelico, senza tempo, capace di raccontare il rinnovarsi dell’eterna lotta tra bene e male anche agli angoli di una metropoli.
“I magi randagi”, di Sergio Citti, Ita-Fra-Ger., 1996.
Con Silvio Orlando, Patrick Bauchau, Rolf Zacher, Ninetto Davoli, Franco Citti, Mario Cipriani, Laura Betti.
Ispirato ad un soggetto del suo maestro e mentore Pier Paolo Pasolini, il film di Sergio Citti si muove a comporre una favola poetico- politica che lascia sbalorditi per la capacità di esemplificazione di contenuti universalmente umani. Tre saltimbanchi falliti si ritrovano a vestire i panni dei Re Magi in un Presepe vivente. Appaiono così credibili, stavolta, ai loro spettatori da convincersi, anche attraverso un sogno premonitore che li ha accomunati davanti ad un Dio stanco ma irredimibile, che uno è il loro destino, una la loro missione, annunciare il nuovo Messia. Guidati dalla Cometa, incontreranno molti Giuseppe e Maria, e tutti i bambini che verranno al mondo saranno per loro tanti nuovi Gesù. Una favola, dunque, come solo Citti poteva raccontarla. Cineasta istintivo e naif, poeta per natura, l’artista romano disegna un itinerario di rinascita dell’Uomo contemporaneo che non può prescindere dalla fantasia, vista come rifiuto di una realtà inaccettabile. La metafora è chiara. Solo il vissuto popolare, antiborghese, spontaneo e vitalistico, potrà salvare il mondo dall’estinzione. Il viatico verso la verità è la poesia, punto di congiunzione tra la speranza e la realtà. Quello in cui si muovono i tre Magi è un itinerario marginale, tra monti, campagne e desolate periferie urbane. Anche qui sono giunti gli echi di un mondo alla deriva, tra indifferenza, avidità, e nulla televisivo. Ma qualcosa si può ancora salvare, esiste ancora una possibilità di rinascita. E Citti la manifesta anche attraverso i personaggi incontrati dai tre protagonisti. Nel prefinale, irrompono sulla scena alcuni tra i maggiori interpreti del cinema di Pasolini: Franco Citti, Ninetto Davoli, Laura Betti e Mario Cipriani con la sua “ricotta”, commovente citazione di uno dei massimi capolavori cinematografici del genio friulano. Il grande poeta c’è ancora, è ancora fra di noi, ci dice il regista, e con lui la Poesia, la possibilità di un mondo diverso. I Magi hanno compiuto la loro missione, adesso sta a noi…
“Camminacammina”, di Ermanno Olmi, Ita, 1983.
Con attori non professionisti
Film “eretico” e anche censurato del cattolico Olmi, che attraverso la vicenda dei Re Magi, entrambi termini da lui mai usati nella pellicola, ci racconta molto della fede, della religione, e dell’impossibilità che queste si coniughino con il potere e ciò che lo circonda. Un sacerdote astronomo e il suo discepolo intuiscono, da una luce fortissima comparsa in cielo, l’imminente arrivo del Salvatore. Formano una carovana di fedeli e si incamminano verso l’atteso Messia. A loro si uniranno altre due carovane. Non tutti gli uomini giungeranno alla meta, incapaci di credere fino in fondo o motivati da interessi personali non sempre collimanti con la natura della missione. Anche quelli che arriveranno, deposti i doni, fuggiranno intimoriti dall’arrivo dell’Imperatore, geloso di questo prodigioso e arcano arrivo, visto come un pericoloso avversario del suo potere. Solo un semplice soldato tornerà sul luogo dell’Avvento, ma soltanto dopo l’arrivo delle truppe imperiali. Girato in piena libertà di mezzi espressivi, dall’uso del dialetto fino all’improvvisazione rosselliniana veicolata al meglio da un cast di attori non professionisti, il film rappresenta l’opera più coraggiosa e “spudorata” del grande artista bergamasco. La (in)coerenza dell’uomo con la parola di Dio, il libero arbitrio dell’uomo come possibilità di essere degni di tale libertà, sono questi i due argomenti forti di questa opera immensa e ricca delle più diverse domande a cui il pubblico è stimolato a dare le sue risposte. Olmi ribadirà questi contenuti in film successivi come “Centochiodi” e “Il villaggio di cartone”. Qui, ciò che più colpisce è l’essenzialità a cui è arrivato il suo cinema, la scarnificazione della messinscena coincide con l’assoluta capacità di entrare dentro le ragioni che legano l’umano al divino. Sembra quasi che Olmi dinnanzi a temi così importanti abbia lasciato interpretare ai suoi non attori soltanto stessi, capaci così di dire tutto di noi. Per questo, al citato Rossellini è giusto unire anche l’altra musa ispiratrice di questo film, Robert Bresson. Come il grande regista francese, anche Olmi appare sfiduciato e oramai senza speranze davanti all’essere degli uomini nella Storia. In una delusione che unisce, inevitabilmente, credenti e non credenti. Insomma, un film testamento, senza la pretesa di esserlo.