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Mafie del Nord: Rocco Sciarrone al liceo artistico “Renato Cottini”

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È iniziato giovedì 2 dicembre al liceo artistico torinese “Renato Cottini” il corso per docenti piemontesi sulle mafie, ciclo di quattro incontri che intendono circumnavigare la galassia mafiosa e ciò che la circonda, come recita il titolo dell’iniziativa: “Mafie e dintorni. Il fenomeno delle mafie in Italia e i loro rapporti con lo Stato e la società civile”. Iniziativa che il liceo ha elaborato in collaborazione con la sezione torinese “Paolo Borsellino” del movimento delle Agende rosse.

Il primo relatore è stato il prof. Rocco Sciarrone, docente ordinario di Sociologica economica all’Università di Torino e direttore del Larco, il laboratorio di analisi e ricerca sulla criminalità organizzata. Del prof. Sciarrone, su questa stessa rivista, era stato recensito un testo, “Mafie del Nord” (Donzelli, 2019), che ha costituito il cardine contenutistico del suo intervento.

Prima di entrare nell’argomento, l’accademico ha sottolineato un aspetto che, associato ad altri rilievi emersi nel corso della relazione, costituisce una sorta di filo rosso in filigrana rispetto il tema trattato. Se le modalità espansive delle mafie dal Sud al Nord della penisola sono state l’oggetto del suo discorso centrale, è anche vero che la puntualizzazione sulla complessità del fenomeno e sulla costruzione di un sapere robusto e professionale in grado di contrastarlo ha chiamato in causa indirettamente la questione dell’antimafia. Una prima osservazione in tal senso è stata quella di apertura, ossia l’aver detto che aveva accolto con piacere l’invito del liceo all’interno di un corso di formazione per docenti perché ritiene fondamentale il processo di affinamento degli strumenti metodologici e contenutistici degli insegnanti. Ciò nella prospettiva del successivo spostamento di questo sapere dai docenti ai discenti. E ha aggiunto di essere perplesso e critico dinanzi a una certa improvvisazione presente nelle iniziative antimafia, dai toni forse più accesi e roboanti, ma anche più occasionali ed epidermici.

È questa la prima precisazione, utile alla comprensione dell’approccio complessivo di Sciarrone al tema trattato e alla platea di una cinquantina di docenti che gli stavano davanti. Alla quale precisazione, prima di entrare nell’argomento, se n’è aggiunta un’altra: sono un sociologo, il mio contributo è frutto di questa prospettiva peculiare, gli esiti del mio lavoro, e quindi i concetti che esporrò, originano da una cassetta degli attrezzi ben definita e da un metodo di lavoro ben preciso.

Entra, quindi, nell’argomento Sciarrone, osservando, in primo luogo, come l’oggetto di studio sia sfuggente, sicuramente suggestivo ed entrato nel senso comune, ma anche per questo incrostato da stereotipi e sedimenti da allontanare, da limare. Il focus sarà sui processi espansivi delle mafie al Nord, in particolare in Piemonte, cioè nelle aree non tradizionali di insediamento. Per affrontare l’argomento, Sciarrone sposta l’attenzione del pubblico su una nota definizione di Sciascia, quella relativa alla linea della palma che si sarebbe spostata dal Sud al Nord e presente nel suo “Il giorno della civetta”, metafora dell’espansione mafiosa verso il Settentrione. L’accademico, riferendosi a tale metafora, ritiene che essa debba essere intesa non come un processo fisico di traslazione delle componenti mafiose verso il Nord Italia, ma piuttosto come il mutamento del clima favorevole alla vita della palma in aree precedentemente inospitali per quest’ultima; fuori di metafora, la creazione di fattori di contesto favorevoli all’insediamento dei mafiosi in aree distanti da quelle originarie. Anticipando un punto successivo della relazione, la linea della palma avrebbe a che vedere con i contesti fertili e collusivi delle zone settentrionali, caratterizzati da condizioni economiche, sociali e culturali propizie all’affermazione di quei legami nebulosi etichettati, più avanti, con l’espressione di “area grigia”.

Il primo problema dinanzi al quale ci si trova ragionando sulle mafie è la loro riconoscibilità, la possibilità di definirle e, quindi, affrontarle. Problema che, per certi aspetti, interessa pure la magistratura, che tuttavia dispone di alcuni strumenti conoscitivi legati alla normativa a partire dal 416 bis, e che origina dall’ambiguità di fondo delle stesse mafie. Si tratta, cioè, di associazioni e di singoli elementi che vivono nella contraddittoria duplice categoria dell’invisibilità e della visibilità: assimilabili alle sette segrete per via del vincolo che li caratterizza e per via della necessità di sfuggire all’azione di contrasto investigativa, ma, al contempo, bisognose di visibilità in virtù delle caratteristiche del loro modus operandi, dall’estorsione alla ricerca di capitale sociale utile agli affari interni.

Peraltro, sempre all’interno del processo di definizione di cosa siano le mafie, si presenta la questione delle false conoscenze relative al fenomeno, sin dalla loro localizzazione e dalla loro genesi. Non erano presenti al Sud nel suo complesso, ma sono germinate in aree definite, dalla Sicilia occidentale alla Calabria meridionale alla Campania tirrenica. Solo successivamente, attraverso un graduale processo espansivo, hanno attecchito negli spazi territoriali contigui: si pensi al caso della Puglia, dove la Sacra corona unita acquisisce uno statuto mafioso più preciso solo negli anni Settanta del Novecento, prendendo in prestito il modello ‘ndranghetista e perdendo, poi, terreno a favore di mafie locali più aggressive quale quella foggiana.

Il prof. Sciarrone si interroga, quindi, sui processi espansivi, ossia su come sia stato letto il fenomeno in momenti storici differenti. Affronta, in primo luogo, la tesi culturalista, basata sull’idea che il mafioso fosse il prodotto del contesto culturale in cui viveva e che negava, se non in casi eccezionali, l’esportabilità delle mafie. È questa la tesi che giustificò o rese possibile l’adozione della misura del soggiorno obbligato ed è ancora questa la tesi contro la quale lavorò Giovanni Falcone, al fine di smontare un’idea dominante per la quale la mafiosità era il contesto, estirpato dal quale il mafioso avrebbe, per così dire, perso la propria mafiosità.

Questa convinzione, oggi in parte abbandonata ma ancora dominante negli anni Settanta, leggeva il fenomeno mafioso alla stregua di un relitto feudale, al quale avrebbe dato un colpo mortale il processo di modernizzazione di quelle aree. Ma non fu così.

Superata la tesi culturalista, in tempi più recenti si sono sovrapposte altre spiegazioni del fenomeno. Ad esempio, la teoria del contagio, secondo cui il virus mafioso avrebbe aggredito le parti sane del Settentrione d’Italia, proprio attraverso il soggiorno obbligato o l’epopea della grande migrazione meridionale. Sciarrone ritiene tale teoria una sorta di giustificazione delle aree non tradizionali di diffusione delle mafie e osserva anche come non ci sia evidenza diretta del rapporto diretto tra immigrazione meridionale e comparsa delle mafie nel Nord; altri, a suo giudizio, sono i fenomeni connessi più direttamente a tale comparsa, ossia l’ampliarsi del bacino di consumatori di stupefacenti e la grande speculazione finanziaria nei decenni successivi al secondo dopoguerra. Peraltro, osserva ancora come il danno maggiore causato dal soggiorno obbligato sia stato procurato a Napoli, realtà ben distante dal Nord Italia e già caratterizzata dalla presenza di un forte subcultura camorristica.

Accenna ancora all’immagine della piovra, come strategia centralizzata di diffusione delle mafie, o a quella dell’invasione, ossia un esercito compattamente volto alla conquista del ricco Nord. Ecco, questo è il punto di disaccordo del prof. Sciarrone con queste tesi, ossia con le tesi “mafiocentriche”, che spiegano tutto attraverso la strategia e la volontà mafiose, rendendo le organizzazioni criminali delle variabili indipendenti, insensibili ad altre variabili, e rendendo la spiegazione del fenomeno mafioso tautologica. Perché la mafia si è espansa? Perché è la mafia.

In tal senso, il relatore osserva come gli spostamenti dei criminali nella penisola non abbiano corrisposto o non corrispondano sempre a scelte deliberate e strategiche, consapevoli: ne è un esempio la presenza in alcune città del Nord degli affiliati ai clan perdenti in un eventuale scontro tra cosche. Dunque, Sciarrone ritiene che una lettura più proficua e metodologicamente corretta dei fenomeni espansivi debba tenere conto, fra le altre cose, del contesto in cui i mafiosi approdano, delle esigenze o delle “richieste” di quel territorio, dei comportamenti della comunità, delle condizioni economiche o culturali. In tal senso, lo studio sul campo in diverse realtà del Nord restituisce una lettura diversa dell’espansione delle mafie lontano dalle aree di origine: esse attecchiscono e si insediano, pur con modalità diverse a seconda del tipo di organizzazione criminale, in funzione e in concomitanza con la presenza nelle realtà settentrionali di fattori di contesto favorevoli alla loro presenza. Il terreno di coltura, dato da economie depresse o in pieno sviluppo, dato da una diffusa prassi corruttiva, dato da una società civile poco sensibile al tema, può essere dirimente per comprendere l’affermazione della ‘ndrangheta o della camorra, in particolare, in Settentrione.

Proprio la presenza di fattori di contesto favorevoli all’insediamento o, comunque, alla presenza delle mafie conduce alla questione centrale dell’area grigia, per la cui rappresentazione visiva il prof. Sciarrone sceglie una nebulosa. A suo parere, lo spazio di incontro fra interessi diversi, ma caratterizzati dall’adozione di pratiche illegali per il loro conseguimento, costituisce l’area grigia, i cui confini sono scontornati in virtù del fatto che sono difficilmente distinguibili il ruolo e le dinamiche degli attori sociali di tali comportamenti e sono anche difficili da rinvenire con chiarezza i limiti del lecito da quelli dell’illecito. Solo all’apparenza, i mafiosi occupano un ruolo centrale, di conduzione delle prassi illecite; in realtà, sostiene l’accademico, vi sono casi concreti in cui la posizione della componente mafiosa era più defilata rispetto a quella di altri protagonisti, quali imprenditori, liberi professionisti o altri esponenti della società civile o politica. A Leinì, comune in provincia di Torino, era stato l’ex sindaco a contattare i mafiosi e non viceversa.

L’area grigia concede, all’intendimento di chi la abita, un duplice vantaggio: da un lato, quello di apparire più difficile da contrastare, proprio per la sua opacità, e, dall’altro, quello di evitare un gioco a somma zero, in base al quale chi vince piglia tutto, garantendo, invece, un gioco a somma positiva: chi partecipa al tavolo, vince comunque. A perdere sono quelli fuori dall’area grigia.

Il fatto è che, anche riuscendo a eliminare i nodi mafiosi, l’area grigia permane, perché le cosche sono, appunto, solo uno dei punti di questa rete scontornata.

Tornando al problema dell’espansione della criminalità organizzata, l’accademico ribadisce che l’area grigia non è un’invenzione mafiosa, i boss l’hanno trovata, per così dire, pronta, l’hanno magari messa a sistema, potenziata, ma il clima favorevole alla palma era già pronto. Non sono sbarcati i marziani, non è arrivato un esercito di colonizzatori aggressivo e feroce o un virus patogeno e distruttivo.

Concluso l’intervento, il prof. Sciarrone risponde ad alcune domande del pubblico, soffermandosi, tra l’altro, sulla questione dei processi, sollecitato in tal senso dalla domanda di un insegnante relativa al silenzio mediatico attorno a “Rinascita-Scott”, processo tuttora in corso nell’aula bunker di Lamezia Terme. Per il sociologo, in realtà, ci sono processi meno celebrati ancora, dei quali si parla ancora meno e che sono altrettanto importanti, ma sono retti da magistrati poco noti al grande pubblico. «Non è importante che si parli tanto di mafie, è importante che se ne parli bene».

Osserva ancora, riferendosi al ciclo “testimonianze” dedicato agli studenti del liceo Cottini – ossia incontri con testimoni della violenza mafiosa: Salvatore Borsellino, fra gli altri –, che è necessario rispettare la differenza tra testimonianza e storia, non sovrapporre incautamente i due aspetti, evitando il problema noto al dibattito storiografico dell’abuso del testimone nella ricostruzione unitaria di un fenomeno o di un processo.

Il finale si cuce all’inizio, torna alla ribalta il modo di affrontare il problema delle mafie, torna alla ribalta il movimento antimafia, il suo armamentario ideologico e metodologico, a cui l’accademico rivolge un invito implicito, ma chiaro: non si stanchi di affinare i suoi strumenti conoscitivi.

*Articolo pubblicato su “Girovite”


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