Avevo sedici anni la mattina del 26 gennaio 2007, quando con l’ingenuità del mio essere ragazzo chiesi ai miei genitori di saltare un giorno di scuola per andare a intervistare, per una piccola rivista studentesca, la grande Lina Wertmuller. Incredibilmente, e non era la prima volta, i miei accettarono, e sarebbe successo ancora, mentre andava formandosi l’immaginario umano e professionale che mi sono portato dietro nei tre lustri successivi e che ormai è parte di me.
Ricordo ancora che Lina Job Wertmuller mi accolse nella sua splendida casa romana, dietro piazza del Popolo, con gli immancabili occhiali bianchi e un fare scanzonato. Ricordo che mi fece subito vincere il mio imbarazzo e cominciammo a parlare, soprattutto di scuola. A differenza di tante nullità che se la tirano per questo o quel titolo conseguito, Lina ci teneva a far sapere di essere stata un’alunna discola, una studentessa indisciplinata, già allora, in pieno fascismo, fuori dagli schemi, disobbediente, anarchica, intrattabile, eppure ricca di quell’umanità che avrebbe caratterizzato tutte le sue opere.
Ricordo ancora che ironizzammo sui titoli chilometrici di alcuni suoi film, e lei scherzava, rispondeva con spensieratezza, senza mai farmi pesare di essere un mostro sacro, e ricordo la mia gioia nell’ascoltare quelle storie da camino che erano diventate poi pellicole memorabili. Perché Lina era soprattutto una grande narratrice, un’affabulatrice come ne nascono poche, una protagonista del nostro tempo e ora anche un’assenza che si farà sentire, in questo mondo di perfettini sempre pronti a esibire il curriculum. Lina no: lei ci teneva a esibire sempre e comunque la sua follia, la sua inadeguatezza, i suoi difetti, una smisurata irriverenza che la induceva, un po’ come De André, ad amare in ogni circostanza gli ultimi, quelli sbagliati, i ripetenti, gli scarti, gli idealisti che non ce la faranno mai, i reietti, i margini e gli abissi della società affluente. Ecco, se volete cercare l’anima di Lina, parlando della sua produzione cinematografica, secondo me dovete prendere a esempio “Io speriamo che me la cavo”. Perché è lì , fra le strade di Corzano, in quella provincia di Napoli che grida vendetta, dove già a otto-nove anni un bambino può essere una vedetta della camorra, è lì e solo lì che poteva ambientare il suo capolavoro.
E soltanto Paolo Villaggio, con la sua dolcezza ligure e molto simile a quella di Faber, poteva interpretare al meglio il ruolo del maestro che si pente di aver dato una sberla a un ragazzino pieno di problemi, in procinto di diventare un mariuolo e per questo da prendere per mano, da recuperare e non da gettare definitivamente nella pattumiera di una società che tende a escludere in partenza quelli come lui. Lina Wertmuller si rivedeva in Raffaele, nella sua fragilità e nel suo tormento, nel suo essere completamente fuori posto, fuori tempo, grande già da bambino, violento pur non volendo esserlo, volgare in una disperata ricerca di candore, feroce malgrado i suoi occhi piccini e ancora votati all’innocenza. Lina si era fatta carico di quel bambino perché in quel bambino vedeva tutti gli oppressi e gli sbagliati del mondo cui, nella sua mente e nel suo cuore, aveva voluto provare, con quel film, a offrire un’opportunità di riscatto.
Lina Job Wertmuller ci lascia, dunque, orfani della sua umanità, dopo novantatre anni trascorsi a lottare sempre e comunque dalla parte del torto. E in quel giudizio universale che affida, in conclusione, al piccolo Raffaele è racchiuso un desiderio quasi dantesco di lanciarsi in un’invettiva che, a differenza dell’originale, non serve però a condannare ma a redimere. Tanti anni dopo ricordava quella storia, quelle storie e quei bambini con l’amore di una vecchia nonna e di un’irriducibile monella, per nulla al mondo disposta a farsi ingabbiare negli schemi sempre cari all’ordine costituito.
Cara Lina, molte cose sono cambiate da allora, quasi tutte in peggio. Se dovessi scrivere un tema o un racconto immaginando un giudizio universale, forse non saprei neanche da che parte cominciare. Eppure, lo concluderei esattamente come Raffaele, con lo stesso spirito con cui uscii quel giorno dalla tua casa in via Principessa Clotilde, con gli stessi auspici e magari qualche amara consapevolezza in più: e io speriamo che me la cavo!
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