Ricorre spesso nel dibattito pubblico il fenomeno del multiculturalismo, conseguenza più o meno diretta di migrazione e immigrazione. Ciò di cui si sente parlare meno sono gli effetti del multiculturalismo sulla fede, sulla religione e, più in generale, sulla spiritualità degli italiani.
In realtà sono tanti i fattori che vanno a incidere su questi aspetti, non da ultimo modernità e consumismo, ma, dall’incontro con altre culture religiose, possiamo comprendere meglio anche il cambiamento in atto della nostra.
Che ruolo occupa la fede nella vita quotidiana degli italiani oggi? Quanto incide sulle scelte degli individui? Quale sarà il futuro delle religioni? Quanto è significativa l’opera di papa Francesco per avvicinare o riavvicinare le persone alla Chiesa?
Nodi problematici trattati e approfonditi nello studio condotto dagli autori, una ricerca sul campo quantitativa e qualitativa, posta in essere un quarto di secolo dopo una prima, svoltasi nel 1994-95.
Il campione statisticamente rappresentativo dell’intera popolazione italiana è costituito da 3238 cittadini di entrambi i sessi, differenti livelli di istruzione e professione.
Nell’indagine condotta da Roberto Cipriani e Franco Garelli emerge che, su venti, i primi sei concetti più ricorrenti in associazione con la vita quotidiana sono:
- Corano
- Musulmani
- Cristiano
- Religiosità
- Angelo
- Chiesa
A dimostrazione della netta predominanza dei doveri quotidiani nella religione maomettana. I cattolici italiani che fanno maggiore riferimento alla famiglia, alla quotidianità e alle pratiche religiose sono coloro che si trovano o si ritrovano ad essere nella condizione di disoccupati.
Ricercare la felicità ed evitare il dolore risultano essere due obiettivi ricorrenti nella concezione diffusa dell’esistenza.
Solitamente si associa la felicità alla sicurezza, alla ricchezza, al benessere e al piacere, contenuti non sempre ritenuti compatibili con una visione religiosa della realtà. In linea di massima gli intervistati propendono per vedere la felicità come una questione strettamente personale.
Soprattutto le persone con un elevato titolo di studio tendono a considerare la felicità come un qualcosa di effimero, passeggero, fugace. Si reputa non valga la pena di affannarsi tanto per una cosa che non è durevole e non soddisfa a pieno.
Se ciò, da una parte, può essere attribuito a una maggiore propensione, delle persone con titoli di studio elevato, alla riflessione e alla ricerca di risposte a quesiti esistenziali, dall’altra può essere interpretata anche dall’angolazione opposta.
Le persone con un titolo di studi inferiore, in genere, vivono una condizione più modesta. Tendenzialmente sono indotti a ritenere che anche solo una posizione economica e sociale migliore possa portare alla felicità.
È idea molto diffusa che l’interpretazione religiosa della vita non renda particolarmente felici. Sono in pochi quelli che coniugano insieme religiosità e felicità.
Le cronache quotidiane dei mass media portano all’attenzione del largo pubblico il problema del dolore, della malattia e del rapporto tra vita e morte. Occorre però constatare che non è affatto diffusa una cultura del dolore. A ciò si aggiunge talora una malintesa concezione religiosa del dolore, che viene interpretato come forma di espiazione, purificazione e preparazione alla vita ultraterrena. Tuttavia, ricorda Cipriani, una simile ottica potrebbe contraddire in modo palese gli stessi fondamenti della religione, che in genere non auspica ad alcuno una sofferenza, per quanto finalizzata a raggiungere un obiettivo salvifico post mortem.
Nello scenario delle situazioni di dolore si è inserito, da qualche decennio a questa parte, il fenomeno non certo nuovo del disagio giovanile che, collegato alla ricerca d’identità e di un’occupazione soddisfacente, ha assunto i caratteri di una vera e propria sofferenza, non solo psicologica ma altresì con effetti somatici e socio-relazionali in genere.
Va sottolineato poi che una soluzione intravista dai giovani è talvolta la ricerca di gratificazioni e risposte in altre religioni, diverse da quelle più diffuse in Occidente.
Il sofferente alla fin fine è un cittadino al pari di tutti gli altri. Perciò lotta per il riconoscimento dei suoi diritti, anche in ambito religioso.
Molto interessanti, ai fini di una riflessione sociologica della contemporaneità, sono anche le impressioni raccolte, nel corso dell’indagine e delle interviste, sul senso dell’esistere, sulla vita e sulla morte.
La constatazione ricorrente è che la morte venga rimossa, messa fra parentesi, sottaciuta. Soprattutto le giovani generazioni vengono allontanate da essa o sono preferibilmente assenti. Al punto da considerarla quasi un’onta, un qualcosa da non va neanche menzionata. Per ogni genere di pratica intervengono dei professionisti, specialisti del settore. La partecipazione sociale è minima, anzi volutamente minimizzata. In definitiva, la morte tende a perdere un suo certo carattere sacro, religioso. E di fronte a essa prevale il disincanto, come affermava Barrau già nel 1994. Blaumer dal canto suo ha parlato di una sorta di burocratizzazione della morte.
Il problema della morte sembra essere un discorso a parte, che travalica le appartenenze religiose e appaia credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, con una tendenza ampia allo smarrimento e allo sgomento.
Confrontando i datti attuali con quelli del 1995, gli autori hanno notato un sostenuto aumento dei negazionisti assoluti del post-mortem, passati dal 10.4% al 19.5%.
Un vero e proprio ribaltone invece si nota allorquando si guarda all’insieme delle opinioni concernenti l’eutanasia. Il 62.7% è favorevole, contraddicendo quindi il magistero cattolico, mentre il 20.4% ne segue i dettami. Nel 1995 i contrari erano il 42.7%.
I dati raccolti sull’eutanasia ricordano quelli sulle unioni civili e sui diritti civili delle persone appartenenti alla comunità LGBT+ e al dibattito pubblico, anche dai toni molto accesi, che è scaturito dal DDL Zan.
Si ha l’impressione che la società civile vada avanti e segua il suo seppur lento percorso di crescita, mentre istituzioni e comunità religiose tendano a rimanere ancorate a rigide posizioni evidentemente obsolete e fuori tempo.
Se la Chiesa, nello specifico quella cattolica in Italia, riesce in genere a raccogliere un maggior numero di consensi rispetto ad altre istituzioni (politiche, economiche, giuridiche, militari, formative, comunicative…) è però anche da tenere presente che non mancano molteplici riserve e critiche nei suoi confronti. Si può affermare che, per quanti risiedono in Italia, è più la Chiesa cattolica nella fattispecie che non la religione in sé a costituire un problema.
Una Chiesa che si è trovata all’inizio del secolo e del nuovo millennio ad affrontare l’impatto con un’accresciuta presenza di soggetti appartenenti ad altre religioni. Vi è un primo gruppo, più cospicuo, di persone che non hanno difficoltà ad accettare e annettere in senso lato una religione altra alla propria, pur non rinunciando al proprio credo; e un secondo insieme di soggetti che tiene molto di più alla propria fede di appartenenza e muove alcune critiche alle religioni diverse.
Nella prima serie di attori sociali sembra essere determinante il livello di studio acquisito, dato che un certo numero di laureati si allinea con una visione più inclusivista in materia religiosa.
Il carattere bonario di papa Francesco attrae, suscita simpatia, crea un legame, facilita l’ascolto, abbatte le distanze e favorisce anche una certa fidelizzazione soprattutto dei credenti e dei praticanti, che lo seguono volentieri anche via radio o televisione. Tuttavia in molti gli rimproverano di avere solo un ruolo di facciata, di copertura. Egli mostrerebbe dunque un volto pacifico, una personalità accondiscendente, una natura non sanzionatoria, ma solo per non mettere in luce le ostilità interne, le fazioni in lotta, i carrierismi e gli arrivismi. Rispetto a tutto ciò, si osserva che il pontefice non è in grado di intervenire e decidere in maniera ampia e definitiva, limitandosi a reprimende solo retoriche, a rimproveri tanto plateali quanto inutili e a parole non seguite da fatti.
Nelle conclusioni al testo, Roberto Cipriani sottolinea come già da tempo ormai i sociologi della religione hanno discusso la possibilità di prendere in considerazione la spiritualità come una nuova dimensione della religiosità. La tendenza sembrerebbe andare verso nuove forme di religiosità, interiori profonde individuali. Non necessariamente in contrasto con la religione o la religiosità, classicamente intesa. E sarà proprio la categoria dell’incertezza il carattere prevalente di questa nuova religiosità, morbida vaga soft instabile indeterminata, non facilmente accertabile né definibile, se non appunto come incerta fede.
Un lavoro di indagine sul campo molto accurato e approfondito, quello condotto dal professor Roberto Cipriani con il supporto, per la parte quantitativa della ricerca, dal professor Franco Garelli. Che arricchisce il lettore di una notevole quantità di informazioni, puntuali e precise, su spiritualità e religione certo ma anche sulla socialità e sull’attualità dell’Italia e degli italiani di oggi.
Il libro
Roberto Cipriani, L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia, Franco Angeli Edizioni, Milano, Prima Edizione 2020, Ristampa in corso (Novembre 2021).
Prefazione di Enzo Pace.
Nota metodologica di Gianni Losito.