Al ballottaggio per l’elezione presidenziale, il Cile ha riaffermatoieri la sua maturità democratica e respinto decisamente le nostalgie di Pinochet inaspettatamente riaffiorate al primo turno. Smentendo la quasi totalità dei pronostici, nuovo capo dello stato è il candidato della sinistra Gabriel Boric, 35 anni, il leader studentesco sorto dalle proteste del 2019. Quando prima giovani e giovanissimi, poi milioni di manifestanti, operai, casalinghe, impiegati pubblici, hanno invaso le piazze rivendicando maggiori diritti, miglioramenti economici e infine conquistato la creazione della Convención Constitucional, che sta formulando la nuova Cartha Magna in sostituzione di quella imposta dalla dittatura militare oltre trent’anni fa.
Boric ha ottenuto 4 milioni e 615 mila suffragi, pari al 55,9 per cento degli 8 milioni e 266 mila espressi; contro i 3 milioni 646 mila, il 44,1 per cento, del candidato di estrema destra, José Kast, che al primo turno lo aveva superato di 150 mila. Su Kast, figlio di un immigrato ex ufficiale nazista della Wermacht e fratello di un ex ministro di Pinochet, la cui dittatura apertamente rivendica, sono confluiti la massima parte dei sostenitori della destra e di quel 13 per cento ricevuto dal qualunquista Franco Parisi, una specie di candidato fantasma che aveva svolto la propria campagna dagli Stati Uniti, dove è rifugiato per motivi giudiziari. Ma non sono bastati ad eleggerlo. Ed è la prima volta che il vincitore del primo turno viene sconfitto al secondo.
Determinante è stato il notevole recupero compiuto nell’elettorato assenteista. Alla precedente consultazione, il 21 novembre scorso, aveva partecipato soltanto il 47 per cento degli aventi diritto. In meno di un mese, la fortissima polarizzazione che ha contrapposto i candidati delle due punte estreme dell’arco politico ha indotto aesprimersi nelle urne il 55,6 per cento, portando il numero totale degli elettori a superare largamente gli 8 milioni sui 15 iscritti nelle liste. Ed è questo milione di nuovi elettori che hanno permesso la vittoria di Boric. Oltre al ricompattamento del centro-sinistra, in cui i timori -ma anche un vero e proprio sgomento- provocati dal pinocettismo resuscitato da Kast, hanno almeno per ora fatto dimenticare divisioni e risentimenti.
Gabriel Boric, anche in ragione dei giovani anni, dell’agilità con cui articola la radicalità dei suoi principi cresciuti al riparo da qualsiasi burocrazia di partito (anche di quella del partito comunista, che pure è il suo primo alleato), è stato capace di limare il proprio programma nella misura necessaria ad assicurarsi il sostegno convinto e attivo di socialisti e democristiani. Vale a dire dei due pilastri della Concertaciòn, che da anni costituiscono il bersaglio delle critiche sue e di tutta la sinistra alternativa, a sua volta da quelli accusata di pericoloso avventurismo. Ribadita quest’ultima ancora alla vigilia del ballottaggio dall’ex presidente della Repubblica Ricardo Lagos, massima espressione del moderatismo tecnicistico del centro-sinistra.
Per la sua stessa formazione ideologica –e alcuni aggiungono per temperamento personale–, Kast non ha mostrato altrettanta velocità di manovra. Nel trasferirsi dalla militanza di origine nella pinocettista Unione Democratica Indipendente (UDI) al suo nuovo Partito Repubblicano, ha sbiadito l’integrismo cattolico solo per accentuare il neo-liberalismo più darwinista. Trascurando l’enorme e innegabile, ancorchè squilibrato sviluppo economico e culturale realizzato dal Cile negli ultimi 30 anni. Fino a vedere nei suoi malesseri uno spazio prevalente di pura restaurazione centralistica e autoritaria (se non peggio), non condivisa neppure dalla maggioranza del mondo confindustriale. Al contrario di Donald Trump, che pur ammira, Kast ha immediatamente riconosciuto il trionfo dell’avversario. Avvertendo però che la sua marcia verso il potere è appena cominciata.
E in effetti, sebbene la sconfitta subita sia rovente e bruci (già qualche collaboratore prende le distanze dalle affermazioni più esasperate di Kast), la presidenza di Gabriel Boric si presenta tutt’altro che semplice. Il capo dello stato uscente, il conservatore Sebastian Piñera, sfuggito a stento all’impeachment per conflitto d’interessi e accusato d’inefficienza all’interno stesso del suo governo ancor prima dello scatenarsi del Covid, lascia un’economia alle prese con la recessione e la pandemia appena attenuata dall’arrivo della stagione estiva. Un’eredità pesante che ostacola fin da subito le promesse elettorali del nuovo Presidente a un paese ansioso di cambiamenti rapidi e profondi. In cui il controllo del Congresso e quindi dell’attività legislativa saranno però condizionati dall’opposizione.
Boric ne è ben consapevole. Perciò invita l’avversario sconfitto al dialogo e alla folla di decine di migliaia di persone che ha invaso l’intero centro di Santiago per festeggiarlo con canti, balli e fuochi d’artificio, annuncia che non governerà rinchiuso nella Moneda bensi dalla strada, in permanente comunicazione con il popolo. L’omaggio al presidente martire Salvador Allende è l’occasione per chiamare tutti alla convivenza civile, al reciproco rispetto. Il Presidente più giovane e più votato della storia cilena è atteso anche alla prova più ardua: riparare le iniquità cresciute insieme al paese senza comprometterne le energie. Traspare l’idea di coinvolgerle tutte in una mobilitazione permanente, a partire dall’Assemblea Costituente già insediata e in cui sono preponderanti non i delegati di partito bensì le personalità indipendenti, fino ai luoghi di lavoro, alle università, alla strada.