Il Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del consiglio ha pubblicato un interessante documento, intitolato Il sostegno all’editoria nei principali paesi d’Europa, con prefazione del sottosegretario con delega per il settore.
Proprio Giuseppe Moles, cui sta in capo il delicato incarico, sottolinea nel primo capoverso il (disatteso) concetto chiave. Si cita l’Unesco che, a sua volta, evoca una netta affermazione dell’economista statunitense premio Nobel Joseph Stiglitz. Si sottolinea come l’informazione sia un bene pubblico meritevole – proprio per questo- del sostegno pubblico.
Non solo. Sempre il sottosegretario rincara la dose, riprendendo uno studio di una decina di anni fa mai pubblicato e tradotto in Italia dell’università di Oxford, in base al quale il totale del sostegno pubblico ai media, misurato in euro pro capite annuo, va da un massimo di 130,7 euro in Finlandia ad un minimo di 43,1 in Italia.
T’hee capì?: risuona il motto del cabaret milanese o, in forme diverse, di chiunque abbia il senso dell’ironia amara e malinconica,.
Purtroppo, però, c’è poco da scherzare. Sono anni, infatti, che attorno al fondo per il pluralismo e l’innovazione – da ultimo regolato dal decreto legislativo n.70 del maggio 2017, in attuazione dell’ultima riforma dell’ottobre 2016 ( legge n.198)- c’è un ballo della morte che ricorda (si parva licet) il bergmaniano Settimo sigillo.
Insomma, lo studio della struttura diretta da Ferruccio Sepe dà ragione a chi ha contestato per anni, a partire da il manifesto e dalle associazioni rappresentative delle più di cento testate interessate dal finanziamento diretto, l’ubriacatura neoliberista inneggiante alla religione pagana del mercato.
Riaffermare il ruolo dell’intervento dello stato in un ambito martoriato dalla crisi (infine dalla pandemia) sembrava un’idea eccentrica o maniacale. Sono cose del passato, spiegavano con volgare reiterazione esponenti di varie parti, con il piglio di una pigra trasversalità reazionaria.
Eppure, il fondo in questione era stata progressivamente depurato da finalità improprie e da tempo era svanito l’alibi della presenza nel paniere dei giornali di partito.
Nell’attuale legge di bilancio non si taglia, ma non si aggiunge (a parte un bel tesoretto dedicato – però- all’innovazione tecnologica e alla classica attenzione alle tariffe postali). La tagliola progressiva comincerà con il 2023. Nulla di nuovo sotto il sole.
Torniamo al documento. Le risorse dirette sono di 1,67 Euro pro capite in Austria, 9,59 in Danimarca, 1,75 in Francia, 6,69 in Norvegia, 7,53 in Svezia. E in Italia 1,49. In termini assoluti ben 118 milioni in Francia, a fronte degli 88 previsti in Italia, peraltro destinati all’estinzione.
Naturalmente, le cifre aumentano, se si considerano i provvedimenti presi per gli aiuti nel periodo del Covid-19.
Ciò che risalta nelle varie tabelle è la posizione (la quinta, generalmente) dell’Italia nel contesto europeo. Se, poi, si calcola l’insieme del mondo editoriale, le percentuali sono persino peggiori.
La morale è chiara: non solo il sostegno pubblico è regola diffusa, ma altrove è significativamente superiore.
Ci si può augurare che il sottosegretario, dopo aver vergato la prefazione, voglia rendere le fitte 71 pagine un materiale di immediato uso politico, traducendole in misure legislative adeguate.
Il transito dall’età analogica all’universo digitale richiede un surplus di risorse, affinché il passaggio non si traduca in crisi, disoccupazione e precariato permanenti. Anzi. L’intervento pubblico deve avere innanzitutto lo scopo di incentivare il lavoro giornalistico, arrestando il pericoloso declino in corso.
Se non in questa legge di Bilancio, si pensi ad immediati altri luoghi normativi. A meno che il documento del Dipartimento non sia una mera ricerca per studiosi della materia.
Ci sono numerose, troppe questioni aperte, a partire dalle problematiche poste dalla federazione della stampa e dall’ordine dei giornalisti.
Dalle buone letture si passi all’azione concreta, secondo una linea di condotta che metta in soffitta l’inutile idolatria del mercato. Subito.