Nel film ”È stata la mano di Dio” Sorrentino gioca sulla contrapposizione tra ordinario e straordinario, che a Napoli – dove è ambientato – genera una normalità speciale. Il soggetto – su base autobiografica – racconta la nascita della sua vocazione per il cinema, usando l’espediente di apparizioni sacre e profane. Dai mistici San Gennaro, il ”munaciello” un monaco bambino che nella tradizione congiunge morti e vivi e ovviamente Maradona mitizzato, fino a un prosaico Fellini che cerca comparse. E che viene continuamente citato dal regista partenopeo con l’uso di personaggi altrettanto eccentrici e affettuosamente deformi, che ruotano intorno a Fabietto (Sorrentino ragazzo). Come le parenti ciccione, il fidanzato stagionato di una cugina senza corde vocali che parla con un apparecchio; la Signora Gentile, amica di famiglia, malmostosa e appartata che prende tutti a ”male parole’ e la zia avvenente e inquieta che accende i suoi giovani ormoni.
Questa ”corte dei miracoli” serve a Sorrentino per evidenziare – a contrasto – la meravigliosa normalità dei suoi genitori, con un padre comunista, che per questo si definisce ”onesto dentro”, anche se si concede un’amante; la madre protettiva, vitale e allegra, che ama il marito fino a tollerare i suoi tradimenti: il fratello complice, ma spento.
Un fatto tragico scaraventa Fabietto nella durezza della realtà. Lui che ha sempre subito gli eventi, ora avverte l’urgenza di dare un senso alla propria vita. La sua passione per Maradona non basta più. Ora vuole fare il cinema perché sente che ”la realtà è scadente”, a costo di mollare tutto e andare a Roma. Un sogno così forte, che gli fa vincere la sua timidezza e abbordare alla prima occasione un famoso regista partenopeo. Lo scambio tra i due è duro. Il regista prima cerca di liberarsene, poi lo insulta, lo provoca e infine lo incalza: ” se vuoi fare il cinema, devi avere una cosa da raccontare. Serve un dolore. Tu ce l’hai una cosa da raccontare? Non ci andare a Roma, perché poi torni qua. Nessuno fugge del proprio fallimento” Fabio si sfoga, confida i suoi demoni al regista, che cambia atteggiamento. E gli dà un consiglio; ” Non ti disunire, guagliò”. Fabio/ Paolo non capisce, ma quell’ammonimento crescerà dentro di sé.
Il film non è semplice. Sorrentino impone lentezze narrative per creare i suoi incantesimi. Il dialetto spesso è ostico e ci fa sentire stranieri, ma alla fine la magia riesce. E si trasforma in emozione.
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