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Caso Assange, una sentenza contro diritti umani e democrazia

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Una sentenza che ci riguarda Se perde WikiLeaks, esce sconfitta completamente la libertà di informazione. Sarebbe un precedente gravissimo: la verità sulle guerre, d’ora in poi, sarà solo quella del potere Talvolta capita che un accidente dia l’idea della sostanza. Un episodio, come una sineddoche, disegna i colori del quadro. È il caso della ormai annosa «serie» di Julian Assange, nella quale il cattivo a giudizio è ben più buono dei suoi inquirenti multiformi. Venuti dalla Svezia o dalla Gran Bretagna o dagli States. I veri cattivi. I colpevoli a piede libero. Purtroppo, siamo di fronte ad una sequenza drammatica, che ricorda da vicino l’affare Dreyfus o le iniziative repressive tipiche degli universi autoritari: dall’Egitto, all’Arabia Saudita, alla Polonia, all’Ungheria. Per citare luoghi di avvenimenti tristi e recenti.
L’alta Corte di Londra si è rimangiata la decisione dello scorso gennaio sulla vicenda di Julian Assange. Sul giornalista fondatore di WikiLeaks pende la condanna annunciata per la violazione di una legge del 1917 contro lo spionaggio. Ad Assange non viene riconosciuto la status di giornalista, mentre lo è di diritto e di fatto. A causa di simile cinica astuzia, non si ritiene applicabile alle divulgazioni di tante criminali malefatte delle guerre in Iraq e in Afghanistan il primo emendamento della Costituzione degli Stati uniti. Vale a dire la tutela sacrale del diritto di cronaca. La garanzia venne applicata, invece, ai Pentagon Papers, che in 7000 pagine svelavano vicende e retroscena della guerra del Vietnam. Tant’è che i dossier vennero pubblicati dal New York Times e dal Washington Post senza conseguenze giudiziarie, in cui non incappò la stessa fonte Daniel Ellsberg. LA NOVITÀ DI IERI risiede nel cambiamento di atteggiamento della giustizia britannica,
che nell’ultima udienza ha deciso di accedere alla richiesta di estradizione rivolta al tribunale inglese dagli Usa. In precedenza fu risposto di no, date le condizioni assai preoccupanti della condizione psichica e fisica di Assange. Del resto, Nils Melze, il relatore delle Nazioni unite contro la tortura, già nel 2019 aveva sottolineato quanto alto fosse il rischio per la vita dell’imputato, persino di suicidio. Ora, dopo qualche rassicurazione sulle condizioni carcerarie statunitensi, l’Alta Corte ci ha ripensato, concedendo il disco verde ai voleri imperiali. Sotto il profilo procedurale, le carte dovranno passare ad un tribunale tecnicamente inferiore (era un appello) per il via libera. Ma, purtroppo, il dado sembra tratto. Salvo miracoli laici.
La moglie e avvocata di Assange, Stella Morris ha preannunciato ricorsi e battaglie legali. Speriamo. Mai arrendersi. La federazione della stampa italiana e l’associazione Articolo21 hanno giustamente ribadito la volontà di continuare una lotta che riguarda sì una persona, capro espiatorio di un potere che da accusato è diventato accusatore. Tocca, però, tutte e tutti coloro che lavorano nell’informazione. Assange va condannato, secondo quella perversa logica. Altrimenti, sono i governi implicati a correre il rischio di rispondere di eccidi e azioni cruente contro militari e civili. Non solo. Se perde WikiLeaks, esce sconfitta completamente la libertà di informazione. Sarebbe un precedente gravissimo, i cui effetti diretti e collaterali sono inimmaginabili. A tingere di surreale la scena tragica sta la convocazione da parte del presidente Joe Biden in questi giorni – 9 e 10 dicembre – di un cosiddetto «Summit per la democrazia», con invito rivolto a ben 111 paesi. Quale democrazia? In verità, la storia di Assange è la negazione di ogni statuto civile e liberale. È la pura affermazione della legge del più forte. Si tratta di un esempio di ciò che la sociologia politica chiama post-democrazia.
Le istituzioni italiane ed europee non possono chinare la testa. Se si accetta supinamente un simile verdetto, la prossima volta a chi toccherà? Travolto un principio basilare, la ferita è per sempre. E le Nazioni unite tacciono? Regole e consuetudini sono buttate nella spazzatura? È auspicabile che tra i democratici americani si apra una discussione seria, perché -a dire il vero- sembra che sia ancora al Campidoglio Donald Trump. Il parlamento italiano, a sua volta, ha perso un’occasione, respingendo nei giorni scorsi una mozione presentata dal deputato Pino Cabras, che meritava giudizi aperti e costruttivi.
Niente vieta, in verità, che alla luce degli eventi si possa tornare sulle decisioni. Non è azzardato, in considerazione delle conclamate sensibilità, chiedere al presidente Mattarella di muovere un passo diplomatico verso la potenza d’oltre oceano. Che rischia di vedere presto il mappamondo girare da un’altra parte. Se non si richiama alle sue vantate origini democratiche, che ne resta dell’Occidente? Altro paradosso: ieri si celebrava la giornata mondiale dei diritti umani.


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