Due assenti illustri. Xi Jinping e Vladimir Putin hanno disertato prima il vertice del G20 di Roma e poi la Cop26 di Glasgow. Joe Biden è rimasto a giocare da solo con i paesi dell’Unione europea e con le nazioni emergenti. Al summit di fine ottobre in Italia e a quello dei primi di novembre in Scozia hanno partecipato solo i ministri cinesi e russi. Formalmente i due presidenti hanno disertato entrambi gli appuntamenti internazionali motivando l’assenza con altri impegni e con la perdurante tragedia del Covid 19, ma in realtà le motivazioni sono politiche.
Mario Draghi non può decantare un successo ma ha evitato un fallimento. Il presidente del Consiglio e presidente del G20 è soddisfatto soprattutto degli impegni presi a Roma contro il cambiamento climatico: alla fine anche «Russia e Cina si sono mosse» attraverso i loro ministri.
Però Xi Jinping, come Putin, ha assunto impegni molto più blandi rispetto alla Ue. Alla Cop26 di Glasgow si è limitato a mandare un messaggio scritto: «I Paesi sviluppati non devono solo fare di più, ma anche supportare i Paesi in via di sviluppo a far meglio».
È un segnale. Sale la tensione con l’Occidente e, soprattutto, con gli Stati Uniti. Sembra passato un secolo dalle visite di Xi Jinping in Occidente e in Italia. Appena due anni fa, nel marzo del 2019, il presidente della Repubblica Popolare Cinese venne a Roma per esportare la Nuova via della seta, gli accordi commerciali a sostegno dell’espansione mondiale della potentissima economia dell’ex Celeste Impero. Riuscì nell’impresa: il primo governo Conte, formato dal tandem sovranista grillo-leghista, aderì all’iniziativa di Xi nonostante l’alt gridato dagli Usa.
Da allora tutto è cambiato. C’è stato il Coronavirus e la “guerra” dei dazi e dell’alta tecnologia con Donald Trump, di fatto confermata da Biden. Xi Jinping ha prima represso a Hong Kong le proteste popolari per la democrazia e poi ha deciso il giro di vite sui pur limitati diritti di libertà dei cittadini dell’ex colonia britannica. Ha varato l’espansionismo militare nel Mar Cinese (con le reazioni preoccupate del Giappone, Corea del Sud, Filippine e Vietnam), ha predicato la “riunificazione” con Taiwan facendo volare circa 150 aerei militari a ridosso dell’isola rivendicata (chiunque cerchi di dividere il Paese «non farà una bella fine»).
In politica interna ha “randellato” i grandi imprenditori privati cinesi spingendo il pedale sulle aziende di Stato. L’anno scorso ha bloccato l’ascesa in Borsa del potentissimo miliardario Jack Ma. Il fondatore di Alibaba, la grande piattaforma di vendite online sul modello di Amazon, aveva avuto il torto di criticare le politiche della Repubblica Popolare Cinese.
Xi Jinping ha formalizzato la svolta muscolare e isolazionista festeggiando i 100 anni di vita del Partito Comunista Cinese. Lo scorso primo luglio in piazza Tienanmen, smessi i vestiti occidentali e indossando la tradizionale giacca maoista, ha fatto appello al patriottismo comunista. Ha scandito tra le ovazioni della folla: l’era della Cina «macellata e vittima del bullismo è finita per sempre». Si è riavvicinato all’ortodossia maoista e si è svincolato dal riformismo di Deng Xiaoping.
Il presidente e segretario generale del Partito Comunista ha rilanciato il «socialismo con caratteristiche cinesi», che significa capitalismo statale. Ha lanciato duri moniti ai grandi imprenditori del Dragone: «Basta con l’espansione disordinata del capitalismo». Il motto è «prosperità condivisa» per tutti i cinesi, in modo da ridurre le pesantissime disuguaglianze sociali tra i nuovi miliardari prodotti dal boom economico ininterrotto degli ultimi 40 anni e i tanti poveri soprattutto nelle campagne.
È una netta correzione di rotta rispetto a quella attuata da Deng Xiaoping, il successore di Mao Zedong morto nel 1976. Deng teorizzò il modello di “un paese, due sistemi” quando negoziò con il Regno Unito l’annessione di Hong Kong. La ex colonia britannica divenne nel 1997 una regione con una amministrazione autonoma della Repubblica Popolare Cinese conservando alcune libertà. Deng aprì le porte alla proprietà privata, all’economia di mercato e al capitalismo perché «la povertà non è socialismo» e «arricchirsi è rivoluzionario».
Con la politica di Deng la Cina ha rotto l’isolamento internazionale, si è arricchita, è uscita dal sottosviluppo, è diventata da “fabbrica del mondo” e ora contende agli Stati Uniti la supremazia politica ed economica globale. Xi, però, ha dovuto fare i conti con la contraddizione esplosiva tra il liberismo selvaggio in economia e la dittatura comunista in politica. Il presidente cinese è corso ai ripari: ha messo le “briglie strette” al capitalismo svincolandosi dall’appello di Deng ad “arricchirsi” e ha mostrato i “muscoli” con la superpotenza americana, la patria del capitalismo.