Un buon uso della vita. Lo scolpisce in versi Gabriella Musetti

0 0

Un buon uso della vita è l’invitante e appropriato titolo della più recente silloge poetica di Gabriella Musetti, pubblicata da Samuele Editore nel giugno 2021: un testo breve ma molto denso e variamente strutturato, preceduto da un’acuta introduzione di Chiara Zamboni, una delle filosofe dell’Università di Verona che hanno dato vita alla comunità filosofica femminile Diotima.
Il nucleo più consistente del libro di Musetti è ascrivibile alla poesia, ma il lavoro presenta anche intarsi di riflessioni dell’autrice e citazioni da lei scelte che illuminano sul sottotesto di pensiero di questa raccolta, che muove da una precisa posizione politica di genere, di cui è espressione anche la scelta della prefatrice. Note e citazioni che, come espressamente dichiarato dall’autrice nella sezione finale a loro dedicata, “non hanno il compito di fungere da esplicazione o riferimento stretto alle pagine di poesia”, quanto quello di riprendere e porgere alcune fonti letterarie “come momenti di dialogo con autrici che sono state particolarmente significative nel mio percorso di vita e di formazione. Sono debiti che ho contratto nel tempo e ora dichiaro con gratitudine”.
Sfila così una gerarchia angelica eterodossa di donne inaddomesticate e imperdonabili, – ossia di pensatrici e scrittrici che hanno aperto faglie nel pensiero unico per secoli dominante, per fondare un ordine simbolico femminile in esso assente – quali Virginia Woolf, Maria Zambrano, Cristina Campo, Simone Weil, Angela Putino, Audre Lorde. Quindi non una spiegazione, ma un debito di gratitudine che, trovando fondamento in quanto queste pensatrici hanno disfatto e scardinato per aprire alla percezione di altro e a modi diversi di stare al mondo, rimanda implicitamente, nelle due sezioni poetiche, a quello che dovrebbe o potrebbe essere “un buon uso della vita”.
Mi rendo conto che sto iniziando «dalla fine», come del resto fa Gabriella Musetti in questi suoi brevi e icastici componimenti in cui, se vi sia stato o meno un buon uso della vita nei tipi di donna che scolpisce (è alla scultura, infatti, che sembrano rimandare questi suoi versi potenti e affilati), lo suggerisce senza dirlo, come nella poesia deve essere, tagliandole nel momento unico, cristallizzato e ormai atemporale della morte. Che siano donne comuni, o donne celebri come quelle della seconda sezione, è in quella morte che si dice la biografia della loro vita.

Così tra le storie che, donne nate da ventre di donna, “sono all’inizio / tutte uguali”, ma subito cambiano “secondo il luogo lo status / il modo e l’accoglienza”, in un mondo in cui ognuno trova a caso la sua stanza”, si muore diversamente, come diversamente si è vissuto. Tanto per fare alcuni esempi:

lei (invece) era morta di notte
tra le botte della sera e quelle del mattino
s’era sottratta all’impeto
alla colpa perfino alla desolazione
e la solitudine che la penetrava

non dava godimento alcuno

lei era morta mangiandosi
da dentro – sempre più

smagriva e si assottigliava
la sua battaglia incalzante
dissipava le energie
tenacemente si consumava

era morta da persona irrisolta

non portava a compimento

alcun progetto alcuna idea
entusiasta festosa all’apparenza

covava un rancore sepolto

anch’esso irrisolto

E così via… Chi muore andando a riprendere la figlia a danza, chi truccandosi allo specchio, chi al supermercato, chi in cucina, chi sulle scale di casa, chi sentendosi braccata pur essendosi ritratta da tutto, chi d’amore, chi d’invidia, chi con sensi di colpa, chi in un inconsapevole riso; tutte, in ogni caso, senza aver cercato uno scarto o un senso altro nella loro esistenza prescritta e priva di significato: la morte, nota giustamente Zamboni, mostra la vita nella sua qualità irrisolta e insignificante.

Ma che cosa non ha funzionato nella vita di queste donne comuni, dove è stato lo scacco? Sembrerebbe, come suggerisce l’esergo della sezione estratto da una lettera di Emily Dickinson (la 271), dall’aver obbedito al divieto di andare nei Boschi per paura del Serpente, mentre nei Boschi, come Emily che non obbedì, avrebbero incontrato soltanto timidi Angeli del vero; sembrerebbe nell’essersi adeguate alla “menzogna che molti praticano”.

La seconda sezione è invece rivolta ad alcune donne poete che hanno avuto il coraggio di percorrere il bosco, con quella sete d’infinito, quello slancio senza economia verso l’assoluto che, per il contrasto con la mediocrità del mondo e il disagio e l’impossibilità di una mediazione con essa, hanno scelto di sottrarsi con lo scarto del suicidio. Sono versi incisivi e asciutti dedicati a Saffo, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Marina Cvetaeva, Ingborg Bachman, Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Alfonsina Storni, che diventano archetipo di altre bevitrici di assoluto. Le donne che non agiscono sottraendosi, come loro, con la morte sembrerebbero, a una prima lettura, le vere folli e le sconfitte: le donne che non mettono la testa / nel forno / sono tutte matte tutte ad aspettare / che qualcosa cambi; o ancora: le donne che non si buttano giù / nel Ponto a capofitto / […] / dimesse tornano al focolare / a intrecciar ghirlande e fiori / sorridenti di un sorriso / sconfitto.

Qual è la strada, allora, quella delle suicide? Non può essere, perché anche il suicidio è un fallimento e, come Zamboni scrive, “è un prezzo da pagare non solo troppo alto sul piano esistenziale, ma risulta il fallimento di tutte noi. Di una politica delle donne”.

La risposta, in realtà, a ben leggere i versi e le riflessioni di Musetti, è proprio in una politica delle donne, perché il nodo vero che bisogna sciogliere – o che ci si adegui a percorsi già tracciati, o che ci si sottragga dandosi la morte – è scardinare l’ordine simbolico e sociale che ha mostrato e mostra come naturali scelte storiche e culturali violente, che ignorano il non detto e l’inaddomesticato che è nella vita delle donne. La politica delle donne insegna a fare tesoro dell’inaddomesticato e dei momenti di intensità, ma trovando le giuste mediazioni al rialzo per impedire lo scacco e procedere verso la realizzazione del desiderio originario.

A ben leggere tra le pieghe, i versi di Musetti sono ambivalenti: pur nell’amarezza dell’ironia, c’è una scarna compassione per le donne mediocri o irrisolte che non hanno saputo dare un significato altro alla loro vita, e un rammarico per quelle assolute e geniali che non hanno saputo, come è ben esplicitato nei versi dedicati ad Antonia Pozzi, alzare “lo sguardo alle montagne / con desiderio d’inerpicarsi ancora / in libertà e disciplina”. Specie nei componimenti finali, l’autrice indica possibili aperture o, per usare una parola a lei cara, possibili sbrecciature: fessure, crepe, “scarti di vita minimi”, trasalimenti, lampi, che possono portare a distrarsi, lei dice, “dal comune senso palese”, per poter “sbirciare la radice selvaggia della vita / da un taglio altro di visuale”, che non solo porti a un sentire originario e non sovrastrutturato dalla menzogna del pensiero unico, ma divenga comportamento. È questa la strada che apre all’inaddomesticato, mostrato come doloroso punto di non ritorno, ma unico presupposto per la “libertà che cambia il segno”.

Nonostante il recitativo potentemente drammatico, accentuato dal linguaggio essenziale e acuminato, non vi è dunque pessimismo, e ben lo si coglie nei versi finali, che marcano il passaggio dalla menzogna ovvia e asessuata avvistata da Emily Dickinson, alla verità che si radica nell’esperienza e nella sessualità dei corpi che “nella curvatura del reale / […] / raccontano la verità / ciascuno / della propria vita”. Il tutto in un movimento che sembra risaldarsi ai versi iniziali sul buon uso della vita, ispirati da un’affermazione della poeta Maria Pia Quintavalla:

un buon uso della vita
e la nostra autobiografia / di tutti

dice Maria Pia –

diventi un viaggio

meno accidentale

non raro non avaro

e strisci dentro

luoghi contenenti sale

Il prezioso, elegante volumetto di Gabriella Musetti è distribuito con una cartolina d’artista inserita nella bandella, che riproduce tre delicati lavori di Donatella Franchi dall’installazione Donne con le ali (work in progress 2011-2018), dedicata alle donne straniere che fanno lavoro di cura: sono tre paia di scarpette in carta di riso, finemente decorate ad acquarello e inchiostro. Una scelta, anche questa, che non è peregrina e ha la sua importanza: quasi a suggerire che “la radice selvaggia della vita”, affinché possa diventare “libertà che cambia il segno”, non si avvista e soprattutto non si pratica in solitudine, ma nella cura della relazione e nel lavoro sul simbolico con le altre.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21