BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Un Almodovar a metà

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“Madres paralelas” di Pedro Almodovar, Spa, 2021.

C’è un po’ di tutto in “Madres paralelas”, ultima fatica di Pedro Almodovar. Come se il regista spagnolo avesse voluto fare una sintesi di tutta la sua carriera, aggiungendo anche qualche novità, purtroppo. La famiglia, l’omosessualità, la donna inquieta e destabilizzante, il maschio inetto, egoista e pecchione, l’invecchiamento non accettato, sono tra i suoi temi preferiti di sempre. I temi inediti sono la Storia e la Biologia, peraltro intersecantesi. Janis, Penelope Cruz, è una fotografa madrilena impegnata nella ricerca dei corpi non ritrovati delle vittime dei falangisti della guerra civile spagnola. La aiuta in questo nobile scopo Arturo, antropologo forense, interpretato anonimamente, secondo copione, dal bravo Israel Elejalde. I due ben presto vanno oltre la semplice collaborazione, e Janis rimane incinta di Cecilia. Contemporaneamente, la giovanissima Ana, una straordinaria Milena Smit, si appresta a dare alla luce Anita, nella stessa clinica dove Janis è ricoverata in attesa del parto. Le due donne solidarizzano e si aiutano a vicenda. In particolare, Ana ha bisogno del supporto psicologico di Janis, non accettando la sua gravidanza, che sapremo in seguito essere frutto di uno stupro collettivo, tenuto nascosto a causa di una difficile situazione familiare. Il primo maschio del film che ne esce, giustamente, male è Arturo, che vorrebbe che Janis abortisse, anche per non trovarsi nell’imbarazzo di dover dire tutto alla moglie malata di cancro. Janis va avanti e così Ana. Le due donne, uscite dalla clinica, si perderanno per poi rincontrarsi, non per caso ma per volontà di Ana, che ancora in difficoltà con la famiglia cerca Janis per averne conforto. E’ accaduto che la piccola di Ana, Anita, è morta all’improvviso nella culla, come, per fortuna raramente, capita a causa di una condizione strutturale del cervello dei neonati. L’accaduto turba Janis che accoglie in casa Ana come baby-sitter per Cecilia. Il loro rapporto si evolverà fino all’innamoramento. In realtà, anche Janis sta vivendo il suo dramma, avendo scoperto, attraverso una prova biologica, che la figlia non è sua. Convinta che il tutto sia frutto del classico e tragico scambio in nursery, sottopone di nascosto, con una semplice scusa, Ana alla stessa prova biologica. La giovane amica-amante risulterà lei la madre della piccola Cecilia. Fino a qui la maestria di Almodovar si è dipanata tra geniali contrasti di luce,  dissolvenze mirabolanti, una tensione pulsante che tiene lo spettatore sospeso in attesa di un verdetto inevitabile, ma, soprattutto, nei perfetti primi piani delle protagoniste, colte nelle loro perplessità interiori e nelle loro infinite solitudini, cui si aggiunge anche quello della madre di Ana, Teresa, interpretata dalla bravissima Aitana Sanchez-Gijon, attrice anche nel film, dove Almodovar le regala, e ci regala, un monologo sull’invecchiare da antologia, sotto forma di prova finale per una messinscena teatrale che vede Teresa protagonista. Cosa non funziona nel film, invece, da adesso, da questa destabilizzante scoperta di maternità? Direi che accade qualcosa di inatteso. Almodovar, il dissacrante genio anni ’80 della nuova Spagna emblema della laicità assoluta, armata di provette biologiche la sua protagonista, risolve freddamente (con solo ovvio pianto di prassi) la questione maternità, riprecipitando la donna in una condizione da Spagna franchista, giocandosi in tre quarti d’ora di film almeno quarant’anni di cultura femminista, che aveva affrancato la donna dall’essere soltanto progenitrice e incubatrice naturale di figli. Janis si vede portare via la “figlia” da Ana come se l’affetto e il sentimento verso una creatura cresciuta con tutto l’amore possibile, peraltro fortemente esplicitato nel film, potesse essere annullato nell’animo della protagonista dalla “certezza” scientifica e biologica. Almodovar non prova neanche ad allargare di un attimo la sofferenza della madre “sbagliata”. Chiude subito la questione, caricandola di un ulteriore indizio a sua colpa quando nel finale Janis finalmente avrà il “suo” figlio naturale, peraltro nuovamente da Arturo. Come consolazione, il regista spagnolo ci regalerà una presunta famiglia allargata, in una ossimoricità culturale davvero rara e sicuramente paradossale. Ma non finisce qui! Com’è andata con le vittime di Franco? E’ andata bene, sono state ritrovate. Con un grande “ma”… Innanzitutto, a scanso di equivoci, bisogna riconoscere ad Almodovar il coraggio, anche se in un finale un po’ troppo narrativamente raffazzonato, di aver rimesso in gioco il tema della memoria storica da conservare e preservare da rigurgiti fascisti e negazionisti oggi sempre più allarmanti. Detto questo, ci si chiede allora quale fosse la necessità di mettere in parallelo la legittima prova biologica, che diventa Storia, dei congiunti delle povere vittime della barbarie fascista con la vicenda privata prima narrata? Perché mettere insieme due situazioni completamente diverse, senza nessun aggancio logico. I figli sono figli di tutti, la fratellanza universale è la prima condizione dell’uomo, dal Cristianesimo in poi, a prescindere dall’essere credenti o meno (“Tutt’eguale song ‘e criature. Nisciuno è figlio de nisciuno”, recita una famosa canzone del grande Enzo Avitabile). Sentimenti e biologia non si coniugano. Pensate a come sarebbe stato bello se Almodovar avesse potuto inserire prima dei titoli finali, oltre alla splendida  frase di Eduardo Galeano sulla cura necessaria della memoria collettiva, anche l’altrettanto celebre frase di Eduardo “I figli non sono di chi li fa ma di chi li cresce”…


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