Paolo Pietrangeli, scomparso oggi all’età di settantasei anni, con la sua arte indimenticabile e unica nel suo genere, è stato il Sessantotto. Da Valle Giulia a Contessa, tutti abbiamo amato suoi inni alla rivolta, i suoi messaggi rivoluzionari, la sua potenza emotiva, la sua forza d’animo, la carica unica che riusciva a trasmettere con la sua musica militante, la sua passione civile e il suo incessante impegno politico. Tutti noi ci siamo trovati a intonare, prima o poi quel canto di rivolta che andava ben al di là della rivendicazione dei diritti e componeva un mondo. Perché Piettangeli era un mondo, una certa idea di uomo e di società, una concezione indomita e inquieta dell’essere umano, sempre pronto a battersi contro le ingiustizie, sempre pronto a lottare contro ogni barbarie, a cominciare dal classismo di una certa borghesia che si opponeva anche solo all’idea che il figlio dell’operaio potesse aspirare a diventare dottore. Il tutto nella stagione in cui l’ascensore sociale funzionava davvero, all’apice dei Trenta gloriosi keynesiani, quando oltre al pane si chiedevano le rose e le nuove generazioni ambivano a essere protagoniste del cambiamento.
Paolo Pierangeli, se vogliamo, è stato il megafono, il simbolo e uno dei principali punti di riferimento della generazione dei “porci con le ali”, quando si praticava l’amore libero, le donne si avviavano lungo il sentiero dell’emancipazione e in Parlamento, nonostante gli Anni di piombo, esplodeva la stagione dei diritti. Divorzio, aborto, Servizio sanitario nazionale, la legge Basaglia per l’abolizione dei manicomi: sono solo alcune delle conquiste del decennio in cui i figli del dopoguerra, del benessere e della crescita sociale ed economica avevano fatto sentire in massa la propria voce, mescolando arte e irrequietezza, contestazione e speranza, la spensieratezza tipica dei vent’anni e la rabbia verso un pianeta che già allora stava cominciando a imboccare la strada che lo avrebbe condotto, nel corso dei decenni successivi, sempre più nell’abisso.
Pietrangeli, con la sua stigmatizzazione gioiosa di quella contessa arrogante e ridicola che si batteva per difendere un potere di matrice feudale e intrinsecamente fascista, aveva colto in pieno il disagio della società a cavallo fra i Sessanta e i Settanta nei confronti delle scorie di un’epoca di cui allora si cercava di liberarsi con tutte le forze e che oggi, invece, sta tornando prepotentemente d’attualità.
Paolo Pietrangeli ha cantato il Sessantotto, la sua bellezza e, se vogliamo, la sua malinconia, anche se le sue note possono sembrare, a prima vista, un urlo di gioia e un tripudio di felicità. Al contrario, vien da domandarsi se il suo genio non avesse intravisto, in quella sconfinata passione giovanile, i primi segni della repressione padronale, pronta a compiere qualsiasi azione pur di contrastare, per l’appunto, quel tripudio di meraviglia che avrebbe potuto seriamente provare a cambiare il mondo.
Quei ragazzi e quelle ragazze furono sconfitti, proprio come sono stati sconfitti i ragazzi e le ragazze delle generazioni venute dopo di loro. Ma se ancora oggi scendiamo in piazza, se ancora oggi non ci arrendiamo, se ancora oggi gridiamo più forte, se ancora oggi sogniamo che anche il figlio dell’operaio possa diventare dottore, se avviene tutto questo è perché il prezzo altissimo che abbiamo pagato e continuiamo a pagare ci dà tuttora l’impressione che ne valga comunque la pena. Perché nessuno al mondo dev’essere sfruttato: né nei campi né nei capannoni delle multinazionali. E quella musica, dolce, sensibile e ribelle, scalderà per sempre i cuori di noi utopisti non intenzionati a pentirci.
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