Il 17 novembre del 1954 è nato a Roma padre Paolo Dall’Oglio. Di lui si è parlato molto, e lui ha parlato molto, fino al giorno del suo sequestro, il 29 luglio 2013. Scomparso a Raqqa, Dall’Oglio è stato sequestrato dall’Isis? Questo è quel che diciamo sempre, da allora. Sappiamo infatti che era entrato nel quartier generale del miliziani jihadisti di al-Baghdadi e da quel momento non si è saputo più nulla di lui. Lo hanno sequestrato loro? Con ogni probabilità sì, ma già qui spicca un tratto, un elemento, una diversità rispetto a tanti altri sequestri. Questa ricostruzione infatti ci mette a confronto con dato di fatto. Dall’Oglio è entrato autonomamente e consapevolmente, deliberatamente, nel covo dei suoi sequestratori. Perché? Si è detto che volesse perorare alcuni rilasci, in particolare di un amico e di uno o più cristiani finiti nelle mani dei miliziani di al-Baghdadi. E’ così? Altre voci, autorevoli, dicono che padre Paolo Dall’Oglio portasse con sé una lettera consegnatagli dalle massime autorità del Kurdistan iracheno, dove si era trasferito da quando il regime di Assad lo aveva espulso l’anno precedente dalla Siria.
Aveva preso in parola il contenuto dell’intesa raggiunta tra regime siriano e inviato dell’ONU, Kofi Annan, sulla libertà di esercizio della parola e della critica politica. Il regime così chiese alla chiesa di Siria in cui Dall’Oglio era incardinato al tempo, che fosse allontanato dal Paese.
Rientrò clandestino due volte. Una prima volta per andare a pregare sulle fosse comuni disseminate dal regime di Damasco nella valle dell’Oronte da cui deportò tantissimi sopravvissuti. Una seconda volta recandosi a Raqqa, nel luglio del 2013. Proveniva da Suleymanieh, nel Kurdistan iracheno. Lì la leadership curda, secondo chi lo accompagnò quel giorno nel quartier generale dell’Isis, gli aveva consegnato un messaggio per la leadership dell’Isis. E’ vero? La questione tra Isis e curdi si annunciava come un detonatore regionale della crisi, un nuovo strumento infernale di crescita ed estensione di un conflitto in via di globalizzazione. E’ a quella richiesta di aiuto che Dall’Oglio non ha saputo di dire di no? Per questo ha accettato di andare?
Di certo è andato, sappiamo che ha detto a chi lo accompagnava di aspettare tre giorni e poi, in caso di non ritorno, di dare l’allarme. Cosa temeva?
Io so che a me e ad altri amici lui scrisse di aver “accettato” di andare a Raqqa, aggiungendo una richiesta insolita: “vi chiedo di pregare per me”. Non lo aveva mai scritto. Sapeva che molti di noi non avevano il dono della fede, ma solo dell’amicizia.
Dunque Dall’Oglio è andato, ha insistito per riuscire ad entrare in quel covo dove non lo volevano. Perché? Se temeva, come temeva, perché insistere? Era l’idea di un dovere nei confronti di popoli, famiglie, donne, bambini, bambine, anziani, villaggi? Era questo a dirgli che doveva almeno consegnare quella carta dei curdi a chi li voleva eliminare?
In questi giorni riaffiora dal nord dell’Europa una traccia di quanto poteva passare per la testa di padre Paolo Dall’Oglio quel 29 luglio. Viene dalla Bielorussia. Lì, tra i disperati usati dal regime bielorusso contro i confini europei, ci sono molti curdi e molti yazidi. Sopravvissuti al genocidio dell’Isis di Sinjar e a quello operato dai turchi quando hanno occupato Afrin. L’Isis è stato sconfitto quattro anni fa, ma gli yazidi a Sinjar non possono andarci. Possono vivere, quattro anni dopo, nelle povere tendopoli allestite dall’ONU. Lo stesso vale per alcuni gruppi curdi di quelle regioni. Quattro anni dopo la sconfitta dell’Isis chi parla di questi curdi, di questi yazidi? Cosa è stato fatto per loro?
Dall’Oglio è andato, lui personalmente, davanti ai criminali dell’Isis. Aveva davvero quella lettera delle supreme autorità del Kurdistan iracheno? Potremo mai chiederlo? Potremo mai saperlo? E lui, sapeva già che sarebbe andata così?
Noi non sappiamo nulla di Dall’Oglio, nato il 17 novembre 1954, dal 29 luglio 2013. Nulla ci dice cosa abbia pensato, vissuto, in quelle ore. Forse lo possiamo immaginare leggendo il testamento di Christian de Chargé, il priore dell’abbazia di Tibhirine, in Algeria, ucciso con gli altri sei monaci trappisti (da chi?) durante il sequestro da parte di terroristi islamisti dopo anni che testimoniavano l’amore per l’islam e i musulmani: «La mia morte, evidentemente, sembrerà dare ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo, o da idealista: “Dica, adesso, quello che ne pensa!”. Ma queste persone debbono sapere che sarà finalmente liberata la mia curiosità più lancinante. Ecco, potrò, se a Dio piace, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i Suoi figli dell’Islam così come li vede Lui, tutti illuminati dalla gloria del Cristo, frutto della Sua Passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre di stabilire la comunione, giocando con le differenze».
Paolo potrebbe essere vivo, come potrebbe essere morto. Questo non dobbiamo saperlo, evidentemente: ma perché sia entrato potremmo saperlo.Sarebbe importante per capire davvero la storia di un uomo.