Il corpo crivellato da colpi di arma da fuoco, il volto sfigurato, così è stata ritrovata il 7 novembre insieme a tre sue compagne Frozen Safi, ventinove anni, docente di Economia, prima attivista dei diritti delle donne ad essere uccisa da quando i talebani sono tornati al potere in Afghanistan. Così hanno comunicato le agenzie di stampa, ma non dimentichiamo le molte donne anonime colpite nel lasso di tempo trascorso da quando tre mesi fa Kabul cadeva, i talebani riprendevano il potere, i paesi occidentali organizzavano ponti aerei e sembravano voler aiutare questo infelice popolo verso il quale in questi giorni si alzano invece barriere di filo spinato alla frontiera orientale dell’Europa. Per riandare un po’ alle origini e alle complesse vicende del Paese può essere utile leggere Il libro di Malalai Joya, Finché avrò voce, Piemme. Il nome Malalai è molto comune in Afganistan, ma è anche il nome di una delle più celebri combattenti della libertà della seconda guerra anglo-afgana nel 1880; Joya è invece un nome di battaglia che Malalai ha dovuto assumere quando, sotto il regime dei talebani, ha attivamente aderito all’azione degli oppositori in clandestinità.
Il libro è del 2009 , uscito in Italia nel 2011, non dà conto ovviamente degli ultimi dieci anni, ma ha il merito di ripercorrere la vicenda storica del Paese attraverso la vita della autrice e della sua famiglia. Inoltre per dare consapevolezza delle reali caratteristiche dell’Afghanistan l’autrice risale più indietro nel tempo, al periodo della lotta del re Amanullah Khan, “leader democratico e amante della libertà”, che costrinse gli inglesi a concedere l’indipendenza nel 1919. Malalai vuole sfatare “ il mito secondo cui l’Afganistan è “da sempre” ingovernabile e l’oppressione delle donne è “da sempre” un elemento radicato nella cultura afghana. La brutalità dei talebani, recita il suddetto mito, è stata soltanto l’espressione estrema di un problema antico. E dunque, soltanto l’occupazione straniera può salvare l’Afghanistan da se stesso”. Malalai si oppone a questa menzogna e vuole mostrare come il suo Paese in passato è stato capace di gestire i suoi affari interni e come i diritti delle donne non sono stati sempre ignorati, bensì “E’ stato l’intervento delle potenze straniere, sommato al sostegno ai fondamentalisti più reazionari, ad aver ridotto a zero i diritti delle donne”.
Per questo ricostruisce anche le vicende politiche fino al 1973,quando finì l’era “costituzionale”, un colpo di stato instaurò una sorta di repubblica filosovietica, sostituita nel 1979 dall’invasione sovietica. Allora furono le donne a rendersi per prime attive contro il regime fantoccio filosovietico e nel 1977 fu fondata da Meena Keshwar Kamal la Rawa (Revolutionary Association for Women of Afghanistan) per aiutare le donne nella lotta per l’emancipazione e i diritti civili e per sostenere la resistenza in seguito al colpo di stato e poi all’invasione. La storia dell’opposizione all’invasione sovietica è raccontata anche attraverso la vicenda del padre, studente di medicina che fu imprigionato per tre mesi poi lasciò definitivamente gli studi e con altri giovani aderì alla lotta contro gli invasori insieme a mujaheddin locali. Malalai ci tiene a chiarire come gli afghani dividano i mujaheddin in due categorie: i “veri mujaheddin” e i “mujaheddin criminali”; nei primi anni della guerra russo – afghana la maggioranza si definiva “mujaheddin” o “guerrieri santi” e come il padre erano patrioti uniti contro l’invasore. Durante questa lotta il padre perse una gamba e in seguito fu costretto all’esilio, prima solo poi con la famiglia.
Quando Malalai aveva quattro anni la sua famiglia fu costretta ad affrontare un durissimo esilio durato quattro anni nei campi profughi dell’Iran, dove però non era possibile far frequentare la scuola ai figli. Questa preoccupazione indusse i genitori a diversi spostamenti anche a costo di rischi e difficoltà. Trasferitisi in Pakistan, Malalai poté frequentare una scuola finanziata e gestita dalla Rawa e altre scuole secondo gli spostamenti cui la famiglia era costretta anche per cercare lavoro. Malalai riuscirà a ottenere fino a una istruzione superiore e comincerà lei stessa giovanissima a insegnare nei campi profughi a donne e ragazze. Nel 1998 entra in contatto con l’ OPWAC (“Organizzazione per il miglioramento delle condizioni della donna”) che non era ancora ufficialmente una Ong, ma voleva iniziare progetti per migliorare le condizioni di vita e favorire l’istruzione di donne e bambine in Afghanistan, dove ormai i talebani avevano preso il definitivo controllo del Paese. Entra dunque nell’OPWAC come assistente sociale e deve trasferirsi nella provincia di Herat per aprire scuole clandestine. Fu allora che per proteggere la sua famiglia assunse il cognome Joya.
Lavora con abnegazione e grande rischio per sé e la famiglia e diventa nel 2001 responsabile dell’OPWAC per l’Afghanistan occidentale. Trasferitasi poi nella provincia di Farah, dove era nata nel 1978, fonderà con OPWAC un orfanatrofio e in seguito un ambulatorio medico; allora non pensava ancora, come spiega lei stessa, alla politica, ma semplicemente alla possibilità di aiutare la povera gente. Dopo l’11 settembre e l’invasione americana con la cosiddetta “guerra di liberazione” del Paese Malalai si va sempre più convincendo della necessità di occuparsi di politica e di far sentire la voce della gente comune: nel 2003 si dà allora la missione di smascherare dall’interno la Loya Jirga (Grande Assemblea) e si fa eleggere. Nel suo primo e unico discorso, che dura solo tre minuti perché le tolgono il microfono, riesce comunque a denunciare i responsabili delle guerre nazionali e internazionali in cui è stato trascinato il Paese che siedono nella Loya Jirga. Nel 2005 si candida alle prime elezioni libere in trentatré anni in cui per la prima volta possono essere elette anche le donne, decisa a “usare ogni mezzo per smascherare” i signori della guerra e i politici corrotti “ anche se questo significava darsi alla politica in un paese in cui la democrazia restava una farsa e il parlamento un covo di ladri e di assassini”. Malalai assume una posizione laica a autonoma dai partiti, determinata ad essere la voce della gente più indifesa con cui intrattiene un dialogo continuo. Dopo una campagna elettorale piena di rischi e resa possibile grazie all’impegno e all’abnegazione a costo della vita di molti volontari, nonostante i brogli viene eletta ottenendo numerosi voti.
La sua permanenza in Parlamento durante la presidenza Karzai è molto difficile: spesso le viene impedito di parlare silenziando il suo microfono, è fatta oggetto di minacce e di attentati, non può più muoversi senza una scorta armata personale oltre quella concessa ai parlamentari, ma non rinuncia a farsi sentire, a prendere la parola, restando fedele al suo proposito di denunciare che molti di coloro che siedono in Parlamento, ricoprono cariche pubbliche, ruoli di ministro sono gli stessi signori della guerra che hanno insanguinato il Paese negli anni della guerra civile, che possiedono ancora milizie private, che sono venuti a patti e si sono messi sotto la copertura degli americani. Nei suoi interventi, come anche nel libro, Malalai circostanzia le accuse, fa puntigliosamente nomi e cognomi. Nel 2007 viene espulsa dal Parlamento attraverso una procedura irregolare, dietro l’accusa di insulti a un suo collega durante una trasmissione televisiva, in realtà per le sue insistenze sulla necessità di processare i criminali di guerra. La sua espulsione provoca molte proteste anche a livello internazionale tra le quali una dichiarazione firmata da intellettuali come Naomi Kleine, Noam Chomsky e politici appartenenti ai parlamenti di Canada, Germania, Regno Unito, Italia e Spagna. Da allora la vita di Malalai è diventata ancora più difficile, scortata da una guardia armata che deve pagarsi personalmente perché le è stata tolta ogni protezione, costretta a nascondersi spesso sotto un burqa, lontana dal marito e dal figlio, non ha rinunciato a vivere in Afghanistan, ma spesso viaggia in paesi europei e anche negli Stati Uniti con l’intento di far conoscere la cultura afghana e far conoscere la reale situazione del suo Paese.
Come dichiara lei stessa, proprio durante questi viaggi ha potuto capire che nel mondo c’è tanta gente che ama la libertà e per questo lotta per raccogliere la solidarietà internazionale intorno al suo Paese. Non si stanca di descrivere soprattutto la situazione delle donne e in un capitolo del libro paragona l’Afghanistan ad un uccello privo di un’ala senza la quale la società afghana non sarà in grado di spiccare il volo fin quando sarà un Paese di donne oppresse, libere solo di chiedere l’elemosina per strada ricoperte dal burqa, libere di prostituirsi per sfamare i figli, libere di suicidarsi per sfuggire a violenze e vessazioni. Malalai ha chiaro che una soluzione positiva per il suo paese non è vicina, tra le varie possibilità che vedeva all’orizzonte mentre scriveva il libro riporta che già “nell’ottobre 2008 funzionari americani di alto livello cominciarono ad avanzare l’ipotesi che fosse arrivato il momento di negoziare con i talebani”, ipotesi che si è puntualmente e tristemente realizzata.
Conclude il testo ribadendo la sua volontà di non arrendersi, la sua fiducia nella forza delle persone comuni e nella solidarietà internazionale che raccoglie nei suoi viaggi. Dichiara che la speranza le viene dalle parole di Martin Luther King: “ Credo che la verità disarmata e l’amore incondizionato avranno l’ultima parola. Questo è il motivo per cui il diritto, momentaneamente sconfitto, è più forte del male trionfante”.