Jorge Mario Bergoglio è tornato per la quinta volta da quando ha assunto il nome di Francesco nella città del santo di Assisi. Vi ha celebrato la giornata dei poveri con cinquecento poveri riuniti da diverse organizzazioni cattoliche, italiane e non. “Sono venuto per ascoltarvi”, ha detto Francesco. “È tempo che ai poveri sia restituita la parola, perché per troppo tempo le loro richieste sono rimaste inascoltate. È tempo che si aprano gli occhi per vedere lo stato di disuguaglianza in cui tante famiglie vivono. È tempo di rimboccarsi le maniche per restituire dignità creando posti di lavoro. È tempo che si torni a scandalizzarsi davanti alla realtà di bambini affamati, ridotti in schiavitù, sballottati dalle acque in preda al naufragio, vittime innocenti di ogni sorta di violenza. È tempo che cessino le violenze sulle donne e queste siano rispettate e non trattate come merce di scambio. È tempo che si spezzi il cerchio dell’indifferenza per ritornare a scoprire la bellezza dell’incontro e del dialogo.”
La civiltà dell’incontro di cui parla Francesco è anche civiltà dell’ascolto dell’altro, a partire appunto dai poveri, molto spesso ritenuti o definiti responsabili della loro povertà soprattutto da chi è assetato di una ricchezza “smisurata”. Anche per questo il papa non ha esitato a dire che bisogna “resistere” e avere la forza di andare controcorrente. “Cosa vuol dire resistere? Avere la forza di andare avanti nonostante tutto. Resistere non è un’azione passiva, al contrario, richiede il coraggio di intraprendere un nuovo cammino sapendo che porterà frutto. Resistere vuol dire trovare dei motivi per non arrendersi davanti alle difficoltà, sapendo che non le viviamo da soli ma insieme, e che solo insieme le possiamo superare. Resistere ad ogni tentazione di lasciar perdere e cadere nella solitudine o nella tristezza”.
Questa giornata è la riprova di come Francesco chieda alla sua Chiesa, e a tutti, di resistere alla cultura dell’isolamento ricostruendo una cultura dell’incontro. Proprio questo fa pensare che la sua visione sia vicina, o quanto meno capisca quella con cui Pier Paolo Pasolini criticò il modo più diffuso di intendere la famosa frase evangelica “ dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. La si ritiene una semplice separazione dei poteri. Ma, per Pasolini, Gesù non era un cerchiobottista, non vedeva un buon esempio in Arlecchino, capace di servire due padroni, sebbene in contesti diversi. La “e” che unisce la prima e la seconda parte della frase evangelica per Pasolini è contrappositiva, separa nel senso che oppone i due poteri. Qui c’è una possibile lettura dell’eterna missione non ideologica del potere religioso. Servire comunque chi viene escluso, da questo o da quel Cesare.