A parlare e scrivere dei riti e delle maschere di una rivoluzione mancata è il figlio di Pio La Torre, che nel solco dell’affermazione di Sciascia sui ‘professionisti dell’antimafia’, a partire dalla propria esperienza di figlio di una vittima ed esperto della materia, traccia un quadro poco incoraggiante del movimento di oggi.
L’antimafia può divenire una stanca liturgia? Una domanda del genere l’aveva posta – mutatis mutandis – Leonardo Sciascia, scrittore siciliano ricordato anche per il suo impegno civile e di cui divenne celebre la definizione polemica di ‘professionisti dell’antimafia’, titolo di un articolo del Corriere della Sera. Un’affermazione che allora – in piena guerra aperta e sanguinosa tra lo Stato e la mafia – funzionò come un detonatore, in seguito riveduta e corretta dallo stesso Sciascia.
A porsi questo interrogativo è adesso è Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, politico e sindacalista italiano, assassinato il 30 aprile 1982 a Palermo, per ordine di alcuni capi di Cosa nostra, tra cui Totò Riina e Bernardo Provenzano. “Oggi – sostiene Franco La Torre – l’antimafia sembra essere diventata uno stanco rito, dove sempre le stesse persone ricordano i caduti di una terribile guerra. Perché è successo questo? Perché il movimento dell’antimafia italiana ha perso la direzione?”.
E, ancora: come è accaduto che “un prezioso pilastro della società civile a sostegno dello Stato nello scontro con le organizzazioni criminali si sia confuso tra personalismi e stanche commemorazioni? Mentre Cosa nostra – grazie al silenzio di politici, giornalisti, imprenditori, magistrati, associazioni – si mascherava persino da antimafia”.