Il consiglio dei ministri dello scorso 5 novembre ha varato due importanti direttive (2019/790 e 2018/1808), inerenti l’una al diritto d’autore e a quelli connessi, l’altra alla fornitura dei nuovi servizi mediali.
Sul capitolo del copyright si è già scritto su il manifesto all’indomani delle decisioni di palazzo Chigi. Il testo, salutato con qualche enfasi dalla federazione degli editori e dalla Siae, opera qualche aggiustamento dell’articolato originario. I giornali vengono risarciti per l’utilizzo di estratti degli articoli che viaggiano tranquillamente in rete con un equo compenso, da definire tra le parti o da delegare – in caso di contenzioso non componibile – all’autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Zone d’ombra permangono sulla tutela dei musicisti (spesso senza difese) nelle trasmissioni in streaming e sulle modalità coercitive nei casi di violazione. Su tali questioni un tempo era assai vigile il popolo della rete, svanito – purtroppo- come neve al sole. Peggio. Le istanze libertarie, distorte a loro uso e consumo, sono oggi agitate strumentalmente dagli Over The Top, che nel 2018 organizzarono di fronte all’assemblea di Strasburgo una gazzarra inquietante. Ora, nel silenzio pressoché generale, è passato un complesso normativo forse decoroso ma tardivo. Tant’è che Google o Facebook trattano direttamente con stati e governi, con giornali ed emittenti. Riecheggia uno slogan degli anni settanta : pace sociale, vince il Capitale. Oggi, il Capitale delle piattaforme.
Comunque, qualcosa le categorie giornalistiche e creative hanno ottenuto. Per chi vuole vedere il bicchiere mezzo pieno. Attenzione ai soliti regolamenti attuativi, che possono spegnere i cuori.
Veniamo, però, alla direttiva gemella. Qui proprio è sceso il sipario. Ne ha scritto sul blog Keybiz un osservatore attento come Angelo Zaccone Teodosi.
Però, materia di discussione ce n’è.
Per esempio, rispetto al testo iniziale del decreto legislativo, analizzato dalla nostra rubrica, ci sono conferme negative e persino peggioramenti figli dell’ingerenza inusitata di una delle piattaforme, questa volta Netflix.
Malgrado il parere critico del consiglio di stato, l’articolo 21 mantiene l’assurda facoltà per le radio locali di toccare metà della popolazione. Un’ulteriore infornata, dunque, di stazioni nazionali. Va ricordato che pure nel piccolo grande medium (dove sono in crisi persino blasonati gruppi editoriali) Mediaset sta occupando il campo. Sempre Mediaset porta a casa un odioso vantaggio negli affollamenti pubblicitari televisivi: un bel + 2% orario. La concorrente pubblica -la Rai- viene al contrario ingabbiata, con una potenziale perdita annuale tra 50 e 150 milioni di euro. Si dia un’occhiata all’articolo 45. Eppure a viale Mazzini si è insediato un supermanager. Curioso il silenzio, visto che lo stesso Fuortes ha ipotizzato di mantenere nelle casse della Rai il gettito completo del canone veicolato dalla bolletta della luce. Se non chiarisce il punto la legge di bilancio, la botta arriva diretta sul solito malcapitato, il fondo per il pluralismo e l’innovazione. Leggi il contributo pubblico alle testate cooperative e di opinione. Un (troppo) timido freno è stato messo dalle commissioni parlamentari competenti nei pareri resi all’esecutivo.
Il finale di partita riguarda l’evocata questione delle quote obbligatorie di investimento nella produzione italiana ed europea. Qui appare chiaro il ruolo svolto da Netflix, cui peraltro si deve una programmazione di rispetto. Dopo paginate a pagamento su diversi quotidiani, secondo un rinnovato stile berlusconiano, ecco che l’articolo 55 al comma 2 recepisce il lamento del gruppo californiano fondato da Reed Hastings. La percentuale sui ricavi da dedicare alla produzione doveva toccare nel 2024 il 25%. All’ultimo si è scesi al 20%.
Almeno si è ottenuto di far emergere, nel balletto farisaico, una verità: dove si computano gli abbonamenti ai fini delle percentuali? Sembrerebbe, come doveva essere ovvio, in Italia. Sarà poco, ma è un battito d’ali di farfalla che fa piovere in Cina. Secondo il proverbio.