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Bob Rapsodhy, o dell’amore che non si siede mai

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Dal 26 ottobre al 7 novembre 2021 al Teatro Elfo Puccini di Milano “Bob Rapsodhy”, scritto, diretto e interpretato da Carolina Cametti.

Irrompe prima la fisicità scolpita e guizzante dell’attrice protagonista dell’assolo e subito dopo l’eloquenza carica di rime e assonanze, un fiume di parole che mimano la poesia e raccontano l’amore. Non una storia d’amore, ma il reiterarsi di situazioni di sofferenza, di disagio, di inadeguatezza nei confronti di quell’uomo amato (o più d’uno) che usa i social per piacere e per adescare, che lascia la compagna con un post su Facebook e che non vuol sentire richieste e bisogni, specie se implicano una limitazione della tanto sbandierata libertà individuale.
Il monologo è un fluire a raffica di frasi e versi che sono solo frammenti decontestualizzati; commenti canzonatori sull’immaturità di chi scappa dagli impegni presi; affermazioni e domande ferite nei confronti di un TU egoriferito e fedifrago, tu che “la S di stronzo la sai davvero portare”, tu che non sai nemmeno “con chi vuoi sognare, con chi ti vuoi alzare”…
E ci si sente immediatamente trasportati in una dimensione interiore, dove le recriminazioni nei confronti di amori immaturi sono di casa, che siano ricevute o formulate nei confronti di altri. “Ho bisogno di te, non c’è niente di male”, dice quasi a convincersi l’attrice mentre si picchia sulle cosce, si passa le mani sulla faccia e sul corpo, rotolandosi a terra, quasi a delimitarsi, a sentire dove finisce il corpo e dove comincia tutta questa apparenza cui siamo chiamati a confrontarci in maniera ineludibile, dopo l’avvento invadente dei social network nelle nostre esistenze e nelle nostre relazioni.
Non è forse evidente che c’è quasi esclusivamente finzione in queste apparenze omologate, visto che quando arriva il compleanno, nonostante tutti i like e gli “amici” che possiamo vantare, non si sa bene chi invitare? – ci ricorda l’io narrante, scomposto in mille voci e mille tonalità espressive che creano un mosaico di disagio dolente, una voce collettiva generazionale, in cui riconoscersi è immediato.
Ci basterà il selfie, in cui sorridiamo felici e in coppia, come sostituto di una conferma mai ottenuta sul fatto che stiamo insieme? – sembra chiedersi l’autrice, muovendosi senza tregua da una parte all’altra di un palcoscenico totalmente vuoto, ad eccezione di una sedia al centro, spoglia, unico rifugio insufficiente e precaria stampella per chi vede crollare le promesse fatte come fossero ponti, “in balìa dei tuoi no, dei tuoi forse”.
L’uso della luce nello spettacolo definisce ombre sul volto spigoloso dell’attrice, quasi fosse una maschera greca, quella tragica, che ci avvicina tutti, noi che ci immedesimiamo, alla follia di questo Tsunami emotivo portato sul palco da Cametti, alla ricerca di una bussola perduta e quasi cercando di non lasciarsi sopraffare dalla totale inadeguatezza di questi cosiddetti amori, che ci lasciano sempre più soli.

Il continuo esercizio fisico e muscolare agito in scena dall’artista sembra suggerire un’impossibilità di soggiacere a questa mancanza di autenticità e di profondità, opponendovi la ribellione, la necessità di scrollarsi di dosso tutte le insicurezze e di dare cittadinanza ai nostri bisogni inascoltati, dovesse anche costarci un elettroshock; fino al punto in cui Cametti esegue a cappella la struggente canzone dei Cranberries, che invece sembra un’ineluttabile resa al dolore della perdita dell’amore, dove quel che ci salva è solo il consapevole desiderio di volerlo vivere anche sapendo che è destinato a finire.
Insomma, impossibile non solo sedersi sugli allori, ma si direbbe del tutto impraticabile anche solo sedersi tout court, riposare, trovare un punto di riferimento stabile, presso il quale prendere anche solo momentaneamente dimora. Così la sobria e anonima seggiola, attorno alla quale l’attrice si contorce ed esprime tutti i suoi tormenti, pare quasi il tetto che scotta sul quale nessuna gatta può trovar pace e incarna, nella sua solitudine sul palco, il vuoto del paesaggio emotivo contemporaneo.
Uno spettacolo da vedere e rivedere, per recepire qualche frase in più di quelle che restano impigliate nella coscienza dopo essere state sparate fuori ad alta velocità dalla Cametti, specie nel finale, che arriva quasi inatteso.
Le doti espressive di questa interprete e la sua velocità di parola dalla precisione balistica sono state riconosciute con la menzione al premio Hystrio per la vocazione, ma Carolina Cametti (classe 1985) colpisce nel segno contemporaneamente anche come drammaturga: è stata infatti segnalata al Premio Scenario per la sua «capacità di raccontare il presente, di far incontrare e scontrare paesaggi, di farsi carico di molte voci inanellandole nel gancio affilato della rima, del ritmo, del respiro che accelera, contrae, ferma, rincorre una inquieta rapsodia del dolore, una corsa accelerata in un possibile canto del mondo oggi».

Bob Rapsodhy, o dell’amore che non si siede mai


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