BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Ariaferma: un atto di fiducia verso un mondo che non esiste

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A un mese dalla sua uscita nelle sale, Ariaferma (ARIAFERMA – Tempesta (tempestafilm.it) continua a registrare un grande successo di critica e pubblico e resta un film importante, tanto nell’ambito del dibattito sulla Giustizia Riparativa, quanto per le intricate dinamiche antropologiche che muove. Nell’intervista che segue, Leonardo Di Costanzo racconta il suo film: dalla scelta estetica del Panottico di San Sebastiano, alle torture che lì come in tante carceri sono insopportabili; dal cinema militante alla rappresentazione del male; dal Vangelo secondo Matteo di Pasolini alla ricerca della narrazione non didascalica; dalla psicanalisi agli attori. Fanno da cornice a questa lunga conversazione, gli interventi di Mauro Palma, Garante Nazionale delle Persone Private della Libertà (https://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/ ), e Patrizio Gonnella, Presidente dell’Associazione Antigone (www.antigone.it ).

D. Ariaferma è un film che apre molte porte, socchiuse occasionalmente per mostrare gli scempi che vi si commettono quando sono chiuse. Le carceri sono tra i più grandi tabù sociali. Perché ha realizzato un film in carcere?

R. L’idea per Ariaferma mi è venuta assistendo a uno spettacolo di Mimmo Sorrentino, un regista teatrale già impegnato in carcere. Sorrentino non lavora sui classici del Teatro, ma sulle emozioni profonde dei detenuti. Lo spettacolo a cui mi riferisco è stato rappresentato nel reparto femminile di Alta Sicurezza del Carcere di Vigevano. Il tema era Il Sangue. Ciascuna delle detenute recitava un testo, elaborato drammaturgicamente da Sorrentino. La particolarità dello spettacolo stava nel fatto che ogni donna non metteva in scena la propria esperienza, ma quella di un’altra detenuta. Quando ho visto lo spettacolo ho pianto, ero a Milano, nella Scuola di Teatro Paolo Grassi, dove le stesse detenute lo hanno recitato. Ho pensato che gli allievi dell’accademia, vedendo quelle donne recitare, avrebbero immediatamente cambiato mestiere: erano talmente potenti che nessun attore professionista avrebbe mai restituito tanta intensità. Da questo spettacolo, il cosceneggiatore di Ariaferma, Bruno Oliviero, prese spunto per girare un documentario molto bello, Cattività (2018). Da lì è nata l’idea. Fino ad allora, mi ero tenuto lontano dal carcere. Avevo paura di entrare in questo luogo dove giusto e ingiusto, etico e non etico sono legati in modo assoluto, esclusivo. Soltanto dopo qualche tempo ho capito che intorno alla costruzione di un carcere non punitivo, riparativo, lavorano moltissime persone. Questa è stata una scoperta magnifica, ed è un peccato che il dibattito vitale, propositivo, consapevole sul carcere sia così avulso dalla realtà quotidiana. Il carcere riguarda tutti. Non perché tutti debbano essere interessati alle sorti dei “tagliagole”, ma riguarda l’essere umano in generale.

D. Ariaferma denota una capacità rara di entrare nell’inaccessibile spazio del carcere. Perché ha scelto San Sebastiano come ambientazione, che è un luogo “maledetto”, dove nel 2000 c’è stata una delle più sconvolgenti e orribili mattanze sui detenuti (https://www.antigone.it/76-archivio/830-sassari-accusati-del-pestaggio-del-2000-assolti-20-agenti-lunione-sarda-4207)?

R. La vicenda del pestaggio nel Carcere di San Sebastiano del 2000 (che poi ha messo in moto la macchina burocratica della rimozione, con la chiusura di quel carcere e la costruzione di una nuova struttura lì vicino), l’ho scoperta dopo aver scelto quello tra le decine di istituti che avevo visitato per ambientare Ariaferma. Nella creazione di un film, avvengono sempre cose inconsapevoli. Sentire che quello era il posto giusto è stato spontaneo, così come lo è stato decidere che i detenuti dovessero essere 12, così come lo è stato scrivere e girare la sequenza della cena. Non volevo fare riferimento all’Ultima Cena di Gesù, per intenderci. Il lavoro di base, per qualsiasi film che faccio, parte dalla costruzione dei personaggi più che dalla storia: sapevamo che dovevamo stare in prigione, sapevamo di dover dare vita al passato e al presente dei nostri personaggi. Sono state molte le cose inconsapevoli, e quindi inspiegabili, nella costruzione di Ariaferma. Io avevo pensato, in verità, di girarlo nel carcere di Torino, perché avevo bisogno di uno spazio ampio tra le celle che fosse il teatro dell’azione, l’agorà, il luogo d’incontro tra i gruppi guardie-detenuti. Avevo immaginato un grande corridoio con le celle, al cui centro si svolgessero le azioni dei personaggi, come luogo d’incontro. Quando abbiamo visitato lo spazio di San Sebastiano, non sapevo nulla dei pestaggi del 2000, però mi è immediatamente sembrato molto appropriato lo spazio di “rappresentazione” del Panottico. Il Panottico è il centro del carcere (San Sebastiano è una struttura costruita nel 1847 e segue l’architettura del carcere ideale teorizzato dal giurista e filosofo inglese Jeremy Bentham, nel 1791 ndr.). Quel centro sottostante la cupola è il punto dal quale tutte le celle sono ugualmente visibili: è il luogo del sorvegliare, dello sguardo che, a 360°, ruota attorno ai detenuti rinchiusi. Quello stesso spazio, abbiamo deciso invece di renderlo il luogo della detenzione. Non più il punto del guardare a vista il colpevole, ma il punto dell’incontro tra guardie e detenuti. Abbiamo reso il Panottico una scenografia, volevamo creare un luogo di riferimento, la parte per il tutto, la scena della rappresentazione.

D. Questo film mi pare denunci fino a che punto il carcere sia davvero come lo descrive Michel Foucault in Sorvegliare e punire (1975): il luogo in cui la società nasconde la parte buia di sé. Vedo Ariaferma come una chiara (ma non dichiarata) denuncia, tramite inquadrature lunghe, insistite, sospese, in una luce vitrea e incolore, di un sistema carcerario fatto di attese e ritardi; di sovraffollamenti spaventosi in alcune strutture e di spazi dismessi e abbandonati in altre; di torture e di molto altro. Avete davvero voluto fare questo genere di lavoro?

R. Per me è difficilissimo parlare di questo film. I precedenti li ho controllati meglio, la loro struttura era più chiara in me. Questo, invece, ha a che fare in modo molto profondo con i concetti di bene e male. Nella sua costruzione, bisognava trovare un equilibrio molto sottile, in cui pancia, testa e cuore dovevano essere liberi. È quasi un sogno. L’atto cinematografico di Ariaferma è più istintivo che razionale, un lavoro quasi inconscio. E rivendico questa cosa, perché è fatto in modo tale che lo spettatore condivida il sogno e lo riempia, trovi il suo modo di muoversi nel mondo in cui siamo entrati. Il fatto che lei lo guardi come il racconto del carcere quale luogo in cui la pena debba essere vissuta dignitosamente e non in spazi tanto angusti come in realtà accade, mi emoziona perché lei, spettatrice, ha dato senso al suo film. Cosa vuol dire questo film? Non lo so: il senso che io dò non dev’essere privilegiato rispetto a quello di chi guarda per il fatto che l’ho girato. Un film lo si comincia, ma lo conclude lo spettatore.

D. Mi pare di dover uscire dal mio universo e immergermi dentro Ariaferma, perché lei mi sta parlando di un sogno in cui domina la possibilità sulla realtà, l’immaginario sul razionale. Sta forse parlando della costruzione di un film come qualcosa di simile alla scrittura automatica?

R. Esattamente. Durante la costruzione di un film, incontri persone, situazioni, storie. Quando entri in quei mondi e accendi la telecamera c’è qualcosa, dentro, che ti dice quando spegnerla. Non puoi tenere lo strumento di ripresa acceso all’infinito. A un certo punto, qualcosa ti dice qual è il momento giusto per smettere di riprendere. E questo è un gesto razionale, ovviamente, ma c’è dentro anche una forte componente istintiva, inconscia direi. Per cui sì: questo film è anche un atto di scrittura automatica. Quando si va incontro al mondo reale, si fa una selezione interiore di cosa riprendere e cosa no, di dove “posizionare” lo strumento di ripresa. È l’istinto che parla, nutrito da un attento studio antecedente, è chiaro. Ho studiato, ascoltato persone che lavorano per una costruzione di un carcere nuovo, ho parlato con guardie, con detenuti. E solo dopo ho capito quando fosse giusto riprendere e dove mettere il mio “punto d’osservazione”. Ma questa è una fase difficile da spiegare razionalmente.

D. Parte della società, fuori, si sta occupando molto del dentro: artisti, architetti, registi, si impegnano per migliorare l’abisso che è il carcere, soprattutto dopo la diffusione delle immagini sulle torture di Santa Maria Capua Vetere. Ariaferma blocca la retorica del porre rimedio dopo la tragedia (anche perché le tragedie perdurano lì come altrove) e irrompe sugli schermi mostrando il sogno di come la vita carceraria non è. Eppure, il film non prende posizione. La macchina da presa registra cosa succede tra due mondi contrapposti e segue le reazioni di questi mondi ai pochi fatti che accadono. L’istituto del film è in dismissione, la cucina chiusa, molti padiglioni abbandonati. Ma le poche guardie e i pochi detenuti rimasti, si ritrovano bloccati in quest’Ariaferma da un vizio burocratico piuttosto ricorrente nella realtà carceraria. I detenuti non ricevono più visite da fuori; il poco cibo precotto è scadente. C’è il rischio di una rivolta. Da qui, parte la tensione narrativa del film. È significativa la sua scelta di non prendere posizione, in un momento in cui tutti sembrano essersi accorti che in carcere si sta male e si schierano dalla parte dei buoni.

R. Restare in un punto mediano della narrazione è stato il nostro obiettivo. Jean-Luc Godard diceva che il posto in cui il cineasta decide di mettere la macchina da presa è il suo atto politico. Lo stare in mezzo, in quel luogo chiuso, mi permetteva di essere in ascolto, in prossimità di entrambi i gruppi contrapposti della narrazione. Questo modo di fare cinema mi è congeniale.

D. Voi autori della sceneggiatura sapete quanti siano gli abusi nelle carceri. Sapete delle torture, di quello che è accaduto a San Sebastiano nel 2000, come sapete che i GOM (Gruppi Operativi Mobili) della Polizia usati per l’attacco repressivo sui detenuti di San Sebastiano sono gli stessi Gruppi della Polizia di Stato che, in particolare a Bolzaneto, hanno torturato i liberi cittadini che erano a Genova nel 2001 per protestare contro il G8. Eppure, Ariaferma è un film di “conciliazione”. È stata una scelta difficile?

R. Il punto è capire cosa si intende con l’espressione “cinema militante”. Il cinema che denuncia il cattivo, a me non interessa. La denuncia la fanno i giornali, le inchieste, la televisione. Il cinema è un’altra cosa. Ma è bello sapere che questo film che sospende il giudizio sia stato accolto con commozione da coloro che lavorano da anni per rendere il carcere un luogo civile, umano. Un agente penitenziario dell’illuminato Carcere di Bollate – dove si studia, si legge, si lavora, c’è un cinema, persino un ristorante gestito da detenuti e aperto al pubblico – quando abbiamo presentato lì il film mi ha detto che in un carcere aperto, serio, produttivo come quello anche lui è più sereno rispetto a quando lavorava in istituti più punitivi. Perché, se quella guardia mi dice questa cosa, in altre carceri accadono violenze senza pietà? Perché le persone che lavorano in quel mondo, e che noi abbiamo ascoltato con molta attenzione per costruire questo film, si sono sentite sollevate dopo averlo visto? Non lo so, perché nel film non c’è una soluzione, non c’è un finale conciliatorio, nulla è definito con contorni netti. Il far vedere, il mettere la macchina da presa in un certo modo, la scelta di alcune luci, immagini, battute: questo è di per sé “militante”, credo, senza bisogno di dichiararlo.

D. Il sogno ideale di Ariaferma, la sospensione, il vuoto di spazio e tempo, la ricerca di un equilibrio tra provocazione e compromesso nei rapporti tra detenuti e guardie, mostrano la follia della quotidianità del carcere. Il conciliare gli estremi, in Ariaferma, è un atto catartico e irreale assieme?

R. Il mio ideale di carcere, francamente, non è quello che ho mostrato, perché anche quello è brutto. Ciò che salva questo film è l’“atto di fiducia” sottostante. Il detenuto più pericoloso del film (Lagioia-Orlando), nel momento in cui nessuno dei due gruppi contrapposti ha alternative se non l’attesa e il continuare a mangiare cibi cattivi, sfida la guardia (Gaetano- Servillo) e chiede di aprire la cucina: sa benissimo che è una richiesta rischiosa, perché la cucina è in disuso e nell’ala opposta del carcere. Da parte sua, anche la guardia sfida il detenuto dando l’ordine di rimettere in uso la cucina e, al tempo stesso, compie un gesto di fiducia. Fiducia e sfida si equiparano. E qui si realizza un equilibrio precario, ma necessario. E questo costante disequilibrio ha il suo apice nel momento in cui Servillo e Orlando gareggiano nel dialogo su chi sta in carcere da colpevole e chi da guardia. Ma quel dialogo arriva dopo che un giovane detenuto con un passato difficile, che rischia anni di galera e prova a tagliarsi le vene, lava il corpo sporco di un vecchio detenuto che ha commesso il delitto più orribile, più il lurido, il più disprezzato dagli stessi carcerati: la pedofilia. Ecco, nel dichiarare a Lagioia-Orlando la propria estraneità al concetto di colpa, Gaetano-Servillo non crede alle sue stesse parole. Questo stare sempre in bilico tra resistere e cadere, proprio solo all’essere umano, è molto importante per me.

D. In un certo cinema che indaga l’essere umano risulta chiara la sottrazione di sé, da parte del regista. Lo fa, per esempio, Pier Paolo Pasolini nel Il Vangelo secondo Matteo (1964). Pasolini trae i dialoghi del film dal Vangelo stesso di Matteo per rimanere fedele alla potenza di quel testo; sceglie l’arte medievale per non estetizzare in modo personale l’iconografia cristiana; sceglie musiche gospel, Bach, Mozart, Prokofiev e Bakalov riadatta canti popolari russi, ebraici, greci per dare il maggior respiro sonoro possibile. La sospensione del sé dichiara, in tal modo, la piena adesione, il totale coinvolgimento in ciò che sta facendo. Soltanto lasciando in disparte la propria opinione, essa diventa più forte. C’è qualcosa di simile tra quella visione del Cristo di Pasolini (così umano, imperfetto, spietoso col potere, pietoso verso il dolore) e la visione dei suoi personaggi, opposti tra loro, ma tutti esseri umani, comunque inadeguati.

R. In effetti, mentre giravo Ariaferma ho rivisto due volte Il Vangelo secondo Matteo; quindi, credo che molto di quella ricerca per “sottrazione” nasca da lì. Inoltre, quando abbiamo scritto la sequenza della cena non sapevamo esattamente il numero dei commensali, né dove essa si sarebbe collocata. Sapevamo che andava girata una cena, ma come ho detto la sceneggiatura dei miei film non nasce sulla base di una scaletta precisa, perché scrivo partendo dai personaggi. Quando abbiamo pensato a questa sequenza di detenuti e guardie mischiati tra loro non abbiamo previsto potessero essere 12 a tavola, come nei Vangeli, come nell’Ultima Cena. È stato casuale, posso giurarlo.

D. C’è una spiritualità sincera in Ariaferma.

R. Mentre scrivevamo il film, abbiamo fatto spesso riferimento al Cristianesimo primordiale. Sapevamo che stavamo dialogando in qualche modo con i testi sacri. Anche perché, pur essendo noi dei “mangiapreti”, siamo intrisi della cultura cristiana. Il film, quindi, ha preso modi di sentire, intuizioni che trovano forma in figure appartenenti alla nostra comune tradizione cristiana. Ma senza andarla troppo a cercare, perché sarebbe sembrato tutto un’illustrazione. Ecco: il tema dominante che abbiamo tenuto in mente è stato evitare l’illustrazione. Quando si ha a che fare con dilemmi etici, di comportamento, è molto facile scadere nel didascalismo. Esattamente ciò che non volevo.

D. I rapporti umani, nei suoi film, dai documentari a L’Intrusa (2017), sono fondamentali. Come lavora per scavare nell’animo delle persone, togliendo gli strati superficiali e arrivando alla loro essenza?

R. Non so se quello che dice sia vero, ma mi fa pensare a un’intervista che mi ha fatto, prima che girassi Ariaferma, una psicanalista lacaniana: parlava del mio modo di mettere i personaggi in condizioni di sospensione ed è come se la trama dei personaggi dei film che scrivo si interrompesse e sono loro stessi a doverne scrivere un’altra, costretti da accadimenti esterni, anomali, nei quali sono costretti a vivere. Le azioni che i miei personaggi devono compiere, diceva la psicanalista, non sono più quelle dettate dal loro ruolo nella società, ma dal loro essere umani. Nel caso specifico, il carcere è un luogo molto preciso, nel quale i ruoli devono essere molto precisi per mantenere equilibri di per sé estremamente precari. In questo film, piano piano, i fatti che accadono fanno sì che i ruoli di guardie e detenuti si stemperino e i personaggi diventano persone e basta: a un certo punto, Gaetano-Servillo si toglie la giacca della divisa, i personaggi via via sono obbligati a compiere azioni scandite dai loro sentimenti, più che da regole di comportamento. La psicanalista mi spiegava che l’analisi lacaniana consiste esattamente nel denudare il paziente dai suoi ruoli (figlio, madre, padre) e portare la sua vita a un punto essenziale, di rinuncia a ogni identità sociale. Una volta giunti a questa condizione, si può iniziare il lavoro terapeutico. Credo di aver provato a fare qualcosa del genere e questo era già accaduto in L’Intervallo e in L’Intrusa. Ma l’analisi la deve concludere lo spettatore. Il carcere è senz’altro il culmine di questa ricerca, perché è il luogo istituzionale nel quale viene confinato il male. Ma non il male di chi ha commesso un reato specifico: in carcere, il male della società viene nascosto e chiuso, è il luogo del male di tutti noi, per questo ne avevo paura. Quante volte veniamo a conoscenza di crimini efferati, insopportabili da tollerare? E quante volte pensiamo che i colpevoli di quel delitto debbano “marcire” in galera? Il sentimento di vendetta che è dentro noi tutti, serve a tentare di placare il dolore dell’offesa subita. È come se sapessimo che in carcere la vendetta si sta consumando e questo ci consola. Personalmente, ho sempre saputo che non è così, che questi luoghi di confinamento sono bestiali. Quello che non sapevo era come agire affinché ci fosse un’alternativa diversa dal mettere un colpevole in cella e buttarne la chiave. Quando mi sono avvicinato a questo mondo, ho però scoperto che l’alternativa alla vendetta della cella c’è. Ci sono persone esperte, consapevoli che si impegnano con professionalità e passione per comprendere quale sia la strada per punire la colpa senza uccidere il colpevole, moralmente, o fisicamente. Finché non ho capito quel mondo di ricerca delle pene alternative al carcere, non sapevo come raccontare il male. D’altra parte, non conosco il concetto cristiano del “porgere l’altra guancia”. Ma chi immagina ed elabora pensieri e azioni affinché la punizione non sia vendetta, mi ha aiutato moltissimo ed è stata la scoperta che mi ha permesso di entrare in galera con uno sguardo diverso dalla semplice paura inconscia, che pure ho. Il dibattito attorno all’uomo che si fa “dentro”, dovrebbe uscire da lì, spostarsi fuori, nella vita sociale: detenuti, guardie, vittime, le loro famiglie, comuni cittadini. Il discorso sull’uomo dovrebbe superare l’ambito legislativo e tecnico, perché è comune a tutti ed è, oggi, molto serio, propositivo, nuovo.

D. Cosa pensa di non aver detto in questo film?

R. Tante cose. Ma credo di aver imparato meglio a filmare il male. Ho imparato a gestirlo, a guardarlo in faccia, a riprenderlo da un punto di vista tecnico. Non sapevo come recuperarlo, trovare un equilibrio di ripresa. Mi riferisco alla figura del pedofilo, per esempio. Come avrei potuto riprendere il male assoluto, il male più orrendo, incarnato in qualcuno che esercita violenza sessuale sui bambini? Volevo che emergesse l’uomo portatore di questo male. Abbiamo quindi deciso di citare vagamente la sua natura di pedofilo, giocando con le proiezioni e con le intuizioni dello spettatore. In sceneggiatura si accenna appena al fatto che non ricorda il nome di una delle figlie. Se togli il tappo a un problema, lo devi anche saper raccontare fino in fondo, lo devi recuperare. Ma questo è un fatto di cucina: se metti molta mozzarella in un piatto, devi trovare un ingrediente che possa compensarne il sapore. Il cinema somiglia alla cucina: il dosaggio giusto, l’intuizione che un’immagine possa star bene con un’altra. Tutto questo è complicato, perché non saprei come perdonare un pedofilo, come assaporarlo affinché non risulti disgustoso, ma umano. È faticoso entrare in quel male assoluto. E il male, più o meno grande che sia, ci sta accanto ogni momento.

D. Ricerca, controllo nella cura drammaturgica e dell’immagine, al fine di mostrare che l’alternativa a quel modo violento di gestire il carcere esiste. È questo che vuole dire?

R. La società nasconde la parte peggiore di sé, lo abbiamo detto, perché non sa come altro fare. Foucault ha detto pure che la rappresentazione della pena in pubblica piazza viene proibita, a un certo punto, per interrompere la teatralizzazione del male. Così, semplificando molto, nasce il carcere chiuso, circolare, lontano dai centri urbani, nascosto, abbandonato. Per secoli. Con questo film abbiamo tentato di abbattere quel muro di lontananza e abbandono, senza spettacolarizzarlo. È assurdo chiudere alla vista un essere umano perché ha fatto del male. È una forma di rimozione, è una scelta vigliacca. A questo punto, uccidiamo tutti i criminali, piuttosto che tenerli in vita lontanissimo da noi. E, guarda caso, affidiamo all’ordine di Polizia meno qualificato il compito di sorvegliare i soggetti che abbiamo relegato in carcere. E vorrei anche ricordare che la Polizia Penitenziaria è la categoria nella quale si registrano molti più suicidi rispetto agli altri agenti di servizio d’ordine. Perché le guardie penitenziarie non hanno ruoli, se non quello di gestire il tempo della giornata dei detenuti. In quel tempo, può non accedere nulla, ma da un momento all’altro può succedere qualsiasi cosa: alcuni detenuti che litigano tra loro, uno che sta male, uno che si ferisce, uno ancora che si suicida. La tensione è tale, in attesa di un’esplosione imprevedibile, da creare nella testa delle guardie uno stress insopportabile. La differenza dei ruoli è molto più chiara al detenuto che al secondino. Il detenuto sa di essere in carcere perché ha commesso un reato. La guardia penitenziaria perché sta lì? Basta il fatto di percepire uno stipendio per vivere nell’attesa snervante di dover gestire un pericolo? Ecco perché il dialogo tra Gaetano e Lagioia sul loro stare “dentro” è carico di una tensione latente, ma fortissima. Il detenuto provoca la guardia: Lagioia sa di essere lì perché è un mafioso e un pluriomida che deve riflettere sulle sue colpe nel tempo di detenzione, Gaetano perché sta lì, invece? Gli risponde di essere sereno, perché ha una vita onesta. Ma è davvero così? Ecco, questa alternanza di ruoli, la guardia che è in carcere da persona libera e onesta e il detenuto che è in carcere per aver infranto la legge, sono due facce di una stessa medaglia. E Gaetano non è per nulla sicuro di quanto sta dicendo al camorrista. Qui, la bravura dei due attori: Servillo e Orlando mostrano tutta la fatica e il dolore del loro essere, entrambi, in un luogo assurdo. Ed è qui che scatta la rabbia, la frustrazione, la violenza tra i due prototipi umani, entrambi rinchiusi. Inoltre, non bisogna scordarsi che tutto ciò che viene da fuori, dentro il carcere, è fatto per il bene dei detenuti, mentre nessuno pensa agli agenti di Polizia Penitenziaria. Voglio dire, i dibattiti, la scuola, l’università, il teatro, il cinema che entrano nelle carceri, sono sempre pensate per i detenuti.

D. Paragonato ad altri film carcerari per lo più “di azione”, in Ariaferma non accade quasi nulla e in questo nulla si concentra tutta la tensione della vita detentiva. In carcere, il male e il bene entrano in rotta di collisione ed è lì che il male si manifesta nella sua violenza più brutale. Con gli attori, come avete costruito questa forma estrema di sofferenza che non si scioglie in nessun accadimento esplosivo?

R. Forse la tensione si scioglie solamente nel momento della cena. Lì, si realizza una sorte di conciliazione, che però viene sempre interrotta: il buio improvviso creato da un temporale nella struttura vetusta, chi servire per primo in tavola, l’arrivo del pedofilo che nessuno vuole come commensale, i brindisi col vino, il ritorno della luce. Ma quella tensione non si scioglie. D’altra parte, è lo spettatore che deve ricomporre l’insieme di un quadro. Ogni spettatore deve mettere nel film la propria esperienza. Non c’è bisogno di inserire il sangue nell’immagine. Lo spettatore sa benissimo, per quello che gli hanno detto televisione, giornali, cronaca, che in carcere, da un momento all’altro, può scoppiare l’inferno. Un film è un costante dialogo tra il regista e gli spettatori, ai quali il regista non deve far vedere tutto. Lo spettatore sa già e può mettere lui a posto le immagini per come vive quella storia che sta guardando. Nei miei film, c’è sempre la Camorra sullo sfondo delle storie. Si percepisce la sua presenza, in piccoli dialoghi, in azioni, in gesti, in sguardi. Ma i miei film non mostrano mai la Camorra. Non voglio perdere il tempo filmico per raccontare una cosa che lo spettatore conosce già. Perché devo rinunciare a qualcosa della vita dei personaggi, per esempio, che lo spettatore di certo non conosce? Preferisco lavorare con l’immaginario di chi guarda. Ho provato a filmare il male senza filmarlo. Dovevo forse far vedere le violenze fisiche sui bambini commesse dal pedofilo? Non ne sarei stato capace. Anche perché al cinema, il male diventa o pornografia (nel migliore dei casi), oppure giustificazione (e quindi inutile, perché esso viene chiuso in uno spazio e quindi allontanato da noi). Non ridurre il male a spiegazione, a immagine, significa mostrarlo meglio, tenerlo vivo, perché non dichiarato; una cosa da immaginare e, quindi, molto più presente.

D: Il film è tutto maschile. I ruoli, gli attori sono stati stabiliti sin dall’inizio?
R. No. Alle prime letture di sceneggiature – fatte a Roma, nella sala del cinema Apollo 11 – i ruoli di Servillo e Orlando erano invertiti. Servillo era il detenuto pluriomicida, Orlando la guardia penitenziaria che ostenta potere e comprensione. Ma mi sembrava di rispettare troppo i loro caratteri attoriali. Ogni attore, cioè, porta con sé una carriera di maschere precise, più o meno simili tra loro in tutti i film. Mi sembrava che tenere Orlando tra i miti e Servillo tra i meno miti, sarebbe stato tenerli in uno stato di comfort: lasciarli in una situazione emotiva che non avrebbe richiesto alcuno sforzo ulteriore di avvicinamento al personaggio. Se Orlando fa Orlando e Servillo fa Servillo, il film è spacciato, lo perdo, mi sono detto. Nel momento in cui l’ho comunicato ai due, Servillo era molto contento. Mi disse che aveva capito che non volevo un semplice poliziotto, ma un così detto “civil servant”. Mi disse che lo avrebbe fatto con gioia e che avrebbe dedicato questo ruolo a suo padre, che era un uomo semplice, coscienzioso, medio, senza particolari doti, se non l’onestà. Orlando, rimase un po’ perplesso, mi disse che aveva sempre interpretato ruoli bonari, anche con accenti forti di ironia, sarcasmo. Mi disse di non sentirsi adatto a incutere timore e paura. Gli feci capire che da qualche parte avevo colto sue espressioni che potevano essere lette come cattiveria. Poi, diedi a entrambi la notizia che avrebbero lavorato con attori non professionisti, ed è noto che gli attori non professionisti sono in qualche modo temuti dai grandi attori, perché la libertà espressiva dei non professionisti è ovviamente maggiore rispetto a chi interpreta ruoli per mestiere, pur con estrema bravura. Gli attori di Ariaferma sono tutti ex detenuti, o ex guardie per davvero, nella vita. Questo genere di attori ha la memoria del corpo: come ammanettare, come portare il detenuto per il braccio, come sbattere sulle grate delle celle, come protestare. Ho fatto in modo che tutti, soprattutto Servillo e Orlando, tornassero al “grado zero” della loro esperienza attoriale. E tutti e due, ma in momenti differenti, durante gli ultimi giorni di riprese, mi hanno detto cose molto simili, senza saperlo. Toni Servillo mi disse che era stato molto duro, che non sapeva di avere certe facce e che non garantiva un buon risultato, perché non si conosceva in quel ruolo. Silvio Orlando mi confessò che qui, a ogni ciak, cercava una maschera tra le sue, ma ogni volta io gliela facevo togliere di dosso, quindi, anche lui, non garantiva sul risultato. Per la loro sincerità e onestà, la prima volta che ho visto il film montato, in versione definitiva o quasi, l’ho voluto vedere con entrambi.

D. Concludiamo con il personaggio più pietoso tra tutti: il giovane Fantaccini, che ha passato la vita da una casa-famiglia all’altra e che ora aspetta un processo, nel dubbio di aver ucciso una persona.

R. Questo ruolo doveva essere recitato da un’attrice, una donna con i capelli corti. Avrei voluto un essere asessuato, un angelo che non si rendesse conto della colpa che aveva commesso e che, una volta compresa, la volesse espiare lavando il corpo dell’uomo più lurido tra tutti, il pedofilo. Un angelo che volesse purificare la propria colpa con gesti umili: non umilianti, umili. Avrei voluto un personaggio che rappresentasse la pietas nel senso pieno del termine. Lei stessa ha notato delle attinenze con Il Vangelo secondo Matteo, io non avrei osato tirarlo in ballo. Ma le ho confessato di aver visto più volte quel film, che mi ha ispirato la figura più umile e pietosa, in senso alto, in senso cristiano, rispetto a tutti gli altri. Ed è lui a far muovere le azioni di tutti gli altri personaggi: è lui che entra nei padiglioni abbandonati, che fa l’aiuto cuoco, che lava il pedofilo, che sposta il tavolino per far sedere il pedofilo non troppo distante e non troppo vicino agli altri detenuti che non vogliono cenare con lui. È il personaggio portatore di pace, ma senza pace. Ariaferma credo sia tutto un film senza pace e in cerca di pace, in definitiva.

“Difficile scindere una valutazione di contenuto da quella della comunicazione. Perché la seconda diviene parte di un contenuto più intimo che ognuno mantiene e cura in sé. E se la prima mostrava anche alcune carenze rispetto alla complessità del mondo detentivo, la seconda riesce a farle dimenticare e aiuta a costruire una nuova percezione personale che forse sarà d’aiuto anche – oltre il film – a trovare soluzioni proprio a quelle carenze. Così la fotografia certamente, gli sguardi, la professionalità espressiva degli interpretati, la delicatezza di chi ne guida da regista le azioni, sono tutti elementi che costruiscono proprio quella dinamica comunicativa che fa sì che si esca dalla sala ripensando e riflettendo: non è cosa da poco. Ma a colpire soprattutto sono, a mio giudizio, le assenze: le parole non dette, le azioni anche di reazione violenta non avvenute, gli spazi non connotati, le piante nell’orto non più curate. Sono le assenze che danno la cifra della comunicazione. Poi c’è, a lato e con una rilevanza minore, la valutazione asettica del contenuto inteso come fotografia reale del carcere odierno. Qui penso possa sorgere l’equivoco della eccezionalità della situazione che il film presenta. Perché parte dalla situazione bella e paradossale di un microcosmo in cui si è tutti reclusi per l’insorgere di una inattesa circostanza. L’abbandono dei luoghi sembra essere il prodotto del già da tempo programmato dover andare via. La comunicazione muta sembra essere anch’essa frutto della contingenza; come pure gli sguardi, i silenzi e soprattutto quell’aria di inutile vuoto. Ferma, appunto. In realtà quel microcosmo non va letto alla luce della contingente situazione verificatasi perché è la cifra del carcere così come oggi si presenta e come forse sempre si presenta. Non è quella particolarità dei pochi non partiti a determinare il luogo asfittico, inutile e vuoto; al contrario quella è la ‘normalità’, quantomeno nella maggioranza dei percorsi detentivi. Inutili e vuoti, al di là delle più volte affermate intenzioni di aderire a quell’idea di utilità positiva che la Costituzione vorrebbe trasmettere. Riesce la bellezza dell’opera realizzata a trasmettere l’angoscia di una situazione permanente e non così particolare come è quella da cui la trama prende le mosse? Spero di sì, ma non sono sicuro. Temo che l’eccezionalità ben rappresentata possa far schermo alla normalità che essa vorrebbe far vedere in trasparenza. Comunque, un grande riconoscimento al regista, agli attori, a chi si è mosso con tanta attenzione ed evidente empatia all’interno di un mondo difficile”.

Mauro Palma

Ariaferma è un rivoluzionario film antropologico sulla dimensione trattamentale della vita carceraria”. “Ariaferma ci riporta al cuore del carcere, che non è una questione solamente normativa, ma è una questione principalmente antropologica, fatta del rapporto tra persone, tra i custodi e i custoditi. Ovviamente, questo ci riporta alla complessità della dimensione antropologica, che è profondamente umana e, quindi, valoriale, etica, per alcuni religiosa. Il rispetto reciproco, profondo delle persone, al di là dei ruoli, è il nucleo del film. Il film porta alla necessità di superare la standardizzazione trattamentale della persona detenuta. Il trattamento non dev’essere mai standardizzato, ma dev’essere individualizzato. Anche la risposta della custodia, d’altra parte, non dev’essere mai standardizzata, ma sempre individualizzata. Nessuno dev’essere mai confinato in un ruolo stereotipato, che sia la guardia o il guardato. Al di là della ovvietà di questi concetti, questa è la vera novità di questo film, che non si muove nella tradizione dei prison movies. La grande novità è il suo non voler fare scandalo. La cosa più importante di questo film è esattamente che non succede niente”.

Patrizio Gonnella


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