Quello che accade lungo la Rotta balcanica riguarda ciascuna e ciascuno di noi: se n’è parlato in un convegno dell’Azione Cattolica tenutosi sabato a Cervignano del Friuli assieme a Nello Scavo, inviato di Avvenire, Giovanni Tonutti, presidente dell’associazione Oikos, e Fawad e Raufi, rifugiato e scrittore
Ci sono parole che pensiamo di conoscere perché le abbiamo ascoltate o lette molte volte. Ci sono binomi che ci sembrano familiari perché da tanti anni ormai i giornali e la televisione ne parlano. Rotta balcanica è uno di questi. E in più sono parole scomode, che nascondono molto dolore e profonde ingiustizie. Forse facciamo fatica a ascoltare ancora perché pensiamo di sapere già tutto. Ma cosa possiamo fare?
«Voi pensate che la rotta balcanica abbia inizio in Bosnia, o al più in Bulgaria e Turchia. No, la rotta balcanica inizia in Afganistan». Sono le parole di Fawad e Raufi, rifugiato e scrittore, invitato a Cervignano lo scorso 23 ottobre, insieme al giornalista Nello Scavo e al presidente dell’associazione Oikos Giovanni Tonutti, in occasione del convegno regionale promosso dal Settore adultidell’Azione Cattolica delle diocesi di Trieste, Udine, Gorizia e Concordia-Pordenone. Un pomeriggio finalmente in presenza, ma seguito contemporaneamente anche online da molte persone.
Cosa possiamo fare? Possiamo ascoltare il racconto del viaggio di Fawad e Raufi che, all’indomani dell’ennesimo attentato a Kabul, ha deciso in una notte di lasciare la madre e la sua terra. «Sei senza barba, ti violenteranno. Se almeno tu avessi la barbapenseranno che sei più grande» mi disse mia madre. Così sul primo pulman per allontanarmi dalla città ho capito che i tanti ragazzi a bordo avevano la barba perché progettavano da mesi quel viaggio. Si erano preparati facendosi crescere la barba». Fawad e Raufi continua il suo lungo e faticoso racconto con l’intensità e insieme la dolcezza che traspare da una vita che in qualche modo ha potuto ricomporsi in Italia. C’è stata accoglienza, c’è stata cura e prossimità. Anche il momento critico dell’uscita dalla comunità ha avuto un epilogo felice nell’incontro con una coppia che ha aperto le porte della propria casa. Ora c’è anche il lavoro di mediatore culturale e una carriera già avviata come scrittore.
La giornalista Fabiana Martini ha intrecciato le domande e le riflessioni dei tre ospiti: poche le risposte, come avviene quando è forte l’urgenza di conoscere e comprendere, senza la fretta di arrivare a qualcosa di definitivo. Ma molto ricchi gli spunti, le informazioni e l’opportunità di vedere in un quadro d’insieme gli aspetti complessi di questo dramma del nostro tempo.
Così l’intervento di Giovanni Tonutti, presidente dell’associazione Oikos, già attiva nella cooperazione internazionale, e dal 2016 protagonista della accoglienza di persone richiedenti asilo, aggiunge l’importante tassello di chi opera sul campo. Il prezioso modello dell’accoglienza diffusa era stato pesantemente azzoppato dal decreto Salvini del 2018, ma la sua riforma nel 2020 non ha superato il tema della volontarietà dei Comuni. Così SAI, il nuovo sistema di accoglienza e integrazione, quasi non esiste o spesso non supera il 15% dell’insieme dei posti di accoglienza.
Ma cosa c’è prima? Che cosa c’è tra la decisione di Fawad e Raufidi partire e l’arrivo entro i nostri confini con la presa in carico da parte di un’associazione come Oikos? C’è il Game. Che fa quasi impressione a tradurlo perché la parola gioco stride totalmente con quello che nella realtà rappresenta. È ancora Giovanni Tonutti a proporre uno strumento efficace e molto concreto per comprendere cosa si celi dietro questa parola. Si tratta del video reportage sulla Rotta balcanica commissionato a Andrea Musi. Interviste e immagini raccolte durante la missione di aiuti umanitari di Oikos nei campi profughi formali e informali di Bihac e Velika Kladusa in Bosnia, a pochi chilometri dal confine con la Croazia. Ragazzi, uomini e intere famiglie che nel Game, tentato e ritentato anche decine di volte, giocano tutta la loro vita.
E qui il discorso si salda con le riflessioni lucide e amare del giornalista Nello Scavo, inviato di Avvenire, che aiuta a comprendere il racconto di Fawad e Raufi e le azioni di Oikos, entro il quadro più ampio della politica dell’Unione Europea fino a toccare senza sconti le nostre personali responsabilità. Del restola carta geografica ci inchioda all’evidenza di una prossimità ai nostri confini che ci deve interrogare. Tanta violenza. Quella nei Paesi di origine e dalla quale fuggono le persone. La violenza istituzionale, ormai ampiamente documentata, della polizia croata. Di quella Croazia che fa parte dell’Unione Europea e alla quale noi facciamo fare il lavoro sporco. A questo e a altri Paesi deleghiamo il contenimento di vite umane in fuga dalla “terza guerra mondiale a pezzi”. Nello Scavo non dimentica di parlare anche del memorandum Italia-Libia del 2017 a firma Minniti-Gentiloni che, proprio il giorno seguente al convegno di Cervignano, lo stesso papa Francesco ha definito lager dai quali si levano grida che non possiamo più ignorare.
Ma la violenza che deleghiamo ad altri non rimane oltre quei confini che vogliamo proteggere. E la frase ipocrita e fuorviante Aiutiamoli a casa loro non deve offuscare una cattiva coscienza che non risparmia nessuno. La catena di responsabilità arrivadunque fino a ciascuno di noi.
Il convegno è stato ampio, intenso, anche scomodo per la sua capacità di interrogare e di chiamare alla responsabilità. E se alla fine qualcuno si domanda: “Ma io, che cosa posso fare?”,Giovanni Tonutti risponde per esempio di offrire un po’ delproprio tempo presso l’associazione Oikos per lezioni e conversazioni in italiano uno a uno. Rispondere uno a uno. Rispondere all’altro, al proprio fratello e sorella.