Gentili Consiglieri, l’associazione Articolo 21 ha sempre difeso le ragioni del servizio pubblico denunciando i criteri di nomina dei vertici aziendali che ne limitavano l’autonomia.
Ma per quanto gli amministratori siano di provata competenza e indipendenti, se la nave fa acqua e i motori sono obsoleti, ogni aspettativa di rilancio della Rai sarà delusa. Parliamo dell’impianto organizzativo dell’azienda, un impianto che risale al 1976 quando la Rai agiva in regime di monopolio, la parola multimedialità non era stata ancora inventata, Internet si chiamava Arpanet e la parola “digitale” indicava, per lo più, una medicina per i malati di cuore.
Quale azienda al mondo potrebbe sopravvivere, assolvere alla sua mission e affrontare la competizione internazionale se progettasse, producesse, distribuisse e archiviasse i suoi prodotti adottando lo stesso modello organizzativo di cinquant’anni prima? Certo, di tanto in tanto, sono stati apportati piccoli aggiustamenti nelle strutture aziendali, ma questo ha creato una sorta di stratificazione geologica in cui pezzi di azienda si sono venuti sovrapponendo ad altri in maniera del tutto accidentale e incoerente impedendo il passaggio alla multimedialità. Di fatto, la struttura attuale dell’azienda è funzionale solo alla lottizzazione; pertanto, in assenza di un nuovo modello organizzativo, il rinnovo degli incarichi editoriali, condannerebbe l’azienda all’immobilismo e alla precarietà negli anni a venire.
Vista da lontano, la Rai ha l’aspetto di un arcipelago composto di isolette editoriali sparse e non comunicanti che ricordano le monadi di Leibniz, Centri di produzione organizzati come officine tayloristiche che demotivano i lavoratori e Sedi regionali vissute come un fardello laddove sarebbero una preziosa risorsa per dare visibilità a quello che Habermas chiama il “mondo della vita”: ai territori, a quel pluralismo culturale e sociale che i talk show hanno contraffatto riducendolo a puro artificio retorico e rissoso.
Come si può pensare che la Rai possa affrontare i suoi agguerriti e potenti concorrenti con strutture di piccolo cabotaggio come le reti televisive – gusci vuoti che a malapena possono produrre per il proprio palinsesto e per un pubblico sempre più avanti negli anni – trascurando il mercato della lingua italiana in un contesto europeo?
Come si può pensare di svolgere una peculiare funzione di servizio pubblico su Internet, dove gravitano 50 milioni di utenti, confidando su una piccola piattaforma come RaiPlay; oppure che si possa sperimentare ed innovare, quando la legittima ambizione di alti indici di ascolto diventa un’ossessione?
Per evitare il cedimento strutturale di questa impalcatura feudale è ineludibile il passaggio a un’organizzazione orizzontale per strutture di genere (intrattenimento, cinema-fiction, informazione, education, sport) che progettino e producano per molti-media: una riforma che l’ultimo CdA aveva finalmente a avviato per poi bloccarla inopinatamente con motivazioni inconsistenti. Attribuire alla “cultura” uno spazio a sé stante, sarebbe controproducente. La cultura è innanzitutto avventura dell’intelletto, capacità di giudizio, coscienza critica, ironia, buon gusto, sensibilità per le arti e fonte di conoscenza; pertanto, la sua presenza dovrebbe caratterizzare tutti i generi della programmazione, a partire da quelli più popolari, nel rispetto della mission del servizio pubblico (crescita culturale dei cittadini) e dell’art. 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Si obietta che sarebbe quanto meno imprudente mettere nelle mani di singoli direttori l’offerta editoriale della Rai. L’obiezione non è peregrina e sarebbe da ingenui sottovalutare questo rischio. Certo bisognerà studiare modalità che assicurino il pluralismo culturale, sociale e politico nella programmazione, in particolar modo la completezza e l’obiettività nell’informazione; ma la garanzia del pluralismo risiede nella collegialità del CdA e ancor più in un rinnovato senso di autonomia e responsabilità di dirigenti e giornalisti, una volta affrancati dall’obbligo di rappresentare una parte politica.
Gentili Consiglieri, sappiamo che il vostro compito non sarà facile. Ragionare secondo la logica intermediale in un’azienda che fino a ieri è stata monomediale è come imparare a usare il computer a cinquant’anni. Paradossalmente, quanto più procedure e modelli organizzativi appaiono superati, tanto più tenace è la resistenza al cambiamento anche quando non sono in questione le catene gerarchiche e i rapporti di potere. Pertanto, non ci sarà da stupirsi se, di fronte a un cambiamento che prevede la nascita di figure professionali poliedriche, multidisciplinari e in grado di misurarsi con i linguaggi e i format di tutti i media, emergeranno comprensibili resistenze, anche di natura psicologica: un motivo in più per chiedere ai dipendenti e agli organismi sindacali di prendere parte attiva nella riforma.
A partire dal 2014, Articolo 21 ha dedicato al passaggio della Rai da broadcaster a media company cinque convegni – ospitati dal CNEL e da Eurovisioni a Villa Medici – che hanno visto la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni, vertici aziendali, sindacati e stakeholder. Nella convinzione che questa riforma non sia più differibile, confermiamo il nostro impegno perché il nuovo assetto organizzativo sia frutto di un’ampia discussione e occupi un posto centrale nell’articolazione del nuovo Contratto di servizio.
Prima ancora che un problema di ingegneria aziendale, ridisegnare la Rai è una scelta che attiene al piano editoriale in quanto la qualità e la varietà dei contenuti presuppongono un modello ideativo-produttivo che sia funzionale alla mission che si persegue. Parafrasando l’affermazione di Mc Luhan, potremmo dire che “l’organizzazione del medium è il messaggio”.
L’auspicio di Articolo 21 è che la Rai, grazie alla vostra volontà di innovare, assuma, a pieno titolo, la veste di una media company di servizio pubblico. Auguri di buon lavoro.