Una lezione di democrazia, di rispetto, di vita quella dei lavoratori della Gkn che lunedì a Campi Bisenzio hanno accolto i giornalisti che in questi duri giorni di lotta e occupazione hanno raccontato la loro storia. I giornalisti di Articolo 21 e di Controcorrente erano presenti rappresentati da Luca Frati (candidato toscano alle prossime elezioni del Consiglio Nazionale dell’Ordine con Carlo Bartoli ed Elisabetta Cosci) e Marzio Fatucchi, del coordinamento toscano di Controcorrente. Questo il racconto di Marzio Fatucchi, intervenuto in rappresentanza del presidente Ast Sandro Bennucci (impossibilitato a partecipare), che con il presidente Fnsi Beppe Giulietti e il presidente Odg Toscana Carlo Bartoli avevano già incontrato i lavoratori della Gkn, portando ai cancelli della fabbrica la solidarietà di tutti i giornalisti alla loro vertenza
Giuseppe guarda la porta a vetro, la lunga striscia da cui si vede l’officina della fabbrica. C’è una luce che pulsa, unica cosa viva in quella natura morta di macchinari, carrelli, scaffalature. “basterebbe un giorno, forse due, per riattivare tutto”, dice con lo sguardo perso verso un punto imprecisato: il suo posto di lavoro? La pulsantiera da toccare per riattivare il rumore e interrompere il silenzio irreale? Inizia a spiegare come arriva la materia prima e il semilavorato, le barre che diventano semiassi dopo aver fatto la tornitura, la fresatura, utilizza altri termini tecnici che parlano di metallo che si trasforma, che prende vita. A quella catena di montaggio, che catena non è quasi più come lo era ai tempi di Chaplin perché molto è automatizzata ma senza l’uomo il “pezzo” non esce come dovrebbe. E racconta. Racconta di quando è arrivato, di quando gli hanno insegnato. E di come ora si sente come quei “tanti arrivati qua, a 50 anni inoltrati, da altre aziende chiuse, che fossero la Zanussi” e poi sfila via una serie di marchi scomparsi. “Erano lì, persi, e c’era un ragazzino (cioè Giuseppe) che gli insegnava come fare”.
È quello in momento in cui ammette, di fronte ai miei dubbi: “Lo so che è quasi impossibile, molto difficile comunque” che la Gkn riparta. Non sono sciocchi, lui e i suoi colleghi hanno visto troppi 50enni cacciati dai loro posti di lavoro costretti a ricominciare daccapo altrove, hanno sentito troppi nomi di fabbriche chiuse per non saperlo. “Se finirà così, farò come loro: mi rimetterò in gioco. Ma se riusciamo anche solo a cambiare una cosa, a migliorare una cosa, a far sì che sia più difficile domani farci quello che ci hanno fatto, beh, ne sarà valsa la pensa. Lo devo a tutti, a mio figlio che ha 18 anni. E se ce la facciamo è perché da quando ci hanno chiusi siamo più uniti, siamo più insieme di prima”. Un luogo dove la gerarchia è la base dell’organizzazione industriale – manager, dirigenti, capi fabbrica, responsabili di reparto, operai specializzati o anziani, operai. Prima stavano in una scala essenziale per la produzione, si sono trovati a produrre altro, alla pari: una lotta.
Lo si studia in etnologia, prima che in sociologia. La capacità di reagire insieme, per gli animali che vivono in branco, fa la forza del branco. Ma qui si parla di uomini, non di bestie, e soprattutto non di numeri. “Non si vince da soli”.
L’interlocutore si emoziona, piange, lo abbraccia. Lui, con l’accento dell’uomo del sud che vive in Toscana da decenni, rimane stupito che un estraneo reagisca così. L’interlocutore se ne frega perché estraneo non è più. Perché in fabbrica usano termini marxisti classici per spiegare le loro azioni, perché hanno deciso di lanciare lo slogan “insorgiamo”, un approccio politico prima che sindacale, far sentire a tutti che può capitare a tutti la stessa ingiustizia e far capire che “non si vince da soli”. Ma prima dell’analisi politica, la forza di quelli che hanno fatto gli operai di Campi è l’empatia, la capacità di avere “relazioni non banali”, perché ognuno di loro, come ricorda il delegato di fabbrica “avendo difeso i lavoratori negli anni da accordi folli, anche sul lavoro nei week end, hanno difeso il loro “tempo libero”, il tempo della vita”. Si lavora per vivere, non si vive per lavorare. Ognuno di loro aveva una passione, un hobby, un’attività – dalla musica a insegnare sport, a fare volontariato – e quindi aveva relazioni non banali, fatte di affetto, comunanza, attività insieme. E vivendo hanno scatenato nei tanti che conoscevano l’empatia: chi li ha visti ha riconosciuto se stesso, si è messo a “camminare nelle scarpe dell’altro”, come insegnavano i nativi americani.
È per questo motivo che è la nata la serata eccezionale – nel senso che di simili non ne ho visto altre in vita mia – alla Gkn di martedì sera. Il collettivo che invita i giornalisti che hanno raccontato la vicenda della chiusura e dei licenziamenti, i cortei e le assemblee, gli incontri – fatti e saltati – a raccontarsi, a raccontare come hanno visto al di là del lavoro la Gkn, a parlare però poi alla fine – tema centrale – delle loro condizioni di lavoro. Quelli del collettivo Gkn hanno organizzato l’incontro perché nelle sere e a volte nelle notti passate coi cronisti presenti, gli operai hanno scoperto che le condizioni di lavoro di chi li intervistava erano peggiori di come pensavano: paghe infime, precariato, turni massacranti, alienazione di dover lavorare a volte per grandi gruppi ma senza sapere cosa sta succedendo nelle redazioni, giornalisti nativi digitali che una redazione – cioè il gruppo di lavoro, il “collettivo”, il confronto nelle riunioni – non sanno neanche cosa è perché non esiste un luogo fisico dove incontrarsi, al massimo gruppi whatsapp.
Un mondo, quello dei giornalisti, in cui il precariato è la metà della forza lavoro – più o meno – in cui l’idea romantica del cronista che batte le strade per raccontare cose utili e interessanti ai lettori si è persa perché c’è chi corre nelle strade, ma per fornire col fiato corto video- testi- fotografie a aziende interessate ai numeri non alla qualità. E poi si pensa solo a tenere sempre meno persone davanti ai computer nelle redazioni – quelli con i contratti “normali”, che ormai sono diventati la minoranza – come criceti a raccontare un mondo che non vedono.
Già condividere, come hanno fatto la 40ina di giornalisti presenti, la realtà, è stato un atto liberatorio. Ma non è stato (solo) uno sfogatoio, i gruppi di auto e mutuo aiuto non hanno mai portato un posto di lavoro. E si sono capite affinità e divergenze tra chi lavora in fabbrica e chi dietro a un video o ad un pc. Alla domanda “ma perché accettare queste condizioni”, legittima e giusta, c’è chi ha risposto “perché è bello, ti senti utile”. Perché raccontare la vicenda dalla Gkn, per molti presenti, è stato fare una battaglia civile, o almeno mettere un mattoncino nella costruzione del muro da cui insorgere.
Il confronto è stato su tutto, dalle condizioni contrattuali al ruolo del sindacato, dalle modalità di lavoro singole alla perdita – durante la pandemia – del contatto con i colleghi. Il presidente Fnsi Beppe Giulietti, nel nord est per sostenere i colleghi vittime di aggressioni da parte di no vax (e denunciare i responsabili) ha inviato un messaggio: c’è «un elemento comune» fra gli operai Gkn e i giornalisti precari, che «non hanno diritti e diventano anche facilmente ricattabili, si possono buttare fuori dal giorno alla mattina» ha detto Giulietti, ricordando le battaglie contro il precariato e l’equo compenso fatte dal sindacato e disattese da governo e editori: «Credo che sia giunto il momento di tornare a mettere attorno a un tavolo – ha concluso il presidente della Fnsi – chi vive nelle fabbriche, chi rivendica il diritto al lavoro, e anche le giornaliste e i giornalisti per scambiarsi le parole, per ascoltarsi a vicenda, per fare dei veri e propri corsi di formazione congiunti. Do la mia più totale disponibilità a fare in modo che questo incontro non sia casuale, ma si ripeta anche in altre aziende: ne cito una sola, la Whirlpool di Napoli, altra situazione drammatica».
Tanti, troppi temi da affrontare in una sola serata. Ma poi alla fine il problema e la soluzione è quella frase di Giuseppe. “Si vince solo insieme”, una reinterpretazione forse non voluta o una reminiscenza, forse conscia forse inconscia, del “se ne sorte insieme” di don Milani. Ma è difficile per chi vive come monade solitaria riuscire a fare quello che la forza della massa è riuscita a fare a Campi: perché in una fabbrica si è tanti, a Campi Bisenzio sono 400. Le redazioni quando sono grandi si parla di qualche decina. Il senso di frustrazione di leggi che ti possano aiutare in questa condivisione di obiettivi, anni di scontri soprattutto nazionali – molti legittimi, altri stupidi, in Toscana abbiamo provato a lavorare assieme e a non lasciare dietro nessuno, l’esempio di Radio Sportiva è uno tra tanti – tra colleghi nel sindacato e nell’Ordine rendono i giornalisti più deboli, più distanti, più soli. Alla fine, c’è solo da dire grazie al collettivo di Gkn, per esser stati curiosi – come dovrebbero esserlo tutti i giornalisti – e aver costretto i giornalisti a guardarsi allo specchio. Però alla fine è necessario una foto di gruppo e partire verso un obiettivo comune. Perché, si, se ne esce solo insieme.