Ha il volto delicato di Kim Hye-ja, stella virtuosa del cinema e della televisione coreana, e l’ottusità schizoide di Won Bin, la coppia madre-figlio di questo spietato e struggente film (2009) recuperato dalla pingue gerla del regista coreano Bong Joon-ho, recentemente assurto agli onori dell’agenda cinematografica con lo sconvolgente Parasite ( 2019).
In un gioco serrato di atmosfere edipiche sospese, in cui la suspence strizza l’occhio a Hitchcock, si snoda la vicenda di un perturbante assassinio che scopre il fianco al delicatissimo equilibrio tra una madre e il figlio ipodotato (conosceva la vittima), accusato di questo delitto. La donna, contro tutto e contro tutti, difenderà il figlio con tenacia indomabile, portando alle sue estreme conseguenze quell’amore inarrestabile che la spingerà, bulldozer umano, in una caccia all’assassino degna del grande maestro del brivido, ma con un piglio originale dove i piani si confondono, mescolando innocenti e colpevoli in un calderone dalle sfumature irridenti, svelando ancora una volta il taglio ironico e personale di una visione cruda della realtà, cifra costante del grande regista. Dalla prima sequenza quasi idilliaca di una donna danzante tra le alte erbe in una distesa senza confini, una donna senza nome, senza identità, all’ultima scena su un autobus anonimo, tra la folla anonima, dove la macchina da presa ferma un gesto non anonimo di una donna non più anonima, Bong Joon-ho traccia con mano ferma il labile confine tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere, tutti. Lo svisceramento psicologico del personaggio Madre, su cui il regista punta il suo sguardo attento finisce per confondere gli spettatori in un andirivieni dove si sgrana e sfilaccia, in una giostra di fragilità e potenza, l’innocenza di un’umanità che mostra impudicamente le sue ferite e il suo sublime squallore.
Nel lungometraggio trapela a tratti, obiettivo parallelo, la sfiducia in un sistema sociale e politico fallimentare, dove l’inettitudine o la crudezza del genere umano finiscono per scatenare violenze celate. L’amore di madre, quanto di più romantico tra i sentimenti umani, diventa un gioco degli specchi, un ribaltamento provocatorio, come l’attrice, solitamente fino ad ora modello di virtù, chiamata qui a interpretare questa spiazzante forza della natura, protesa fino all’abnegazione, senza confini etici. La cinepresa di Bong Joon-ho ci offre costantemente, ormai lo sappiamo, la condivisione di un cupo affresco della vita. I toni, inizialmente ovattati, li vediamo animarsi e accendersi in improvvise impennate, da cui fiorisce e sboccia la malapianta dei sentimenti estremi e di atti inconfessabili.
Il pregio dell’opera, in cui scene quotidiane si alternano sapientemente a quadri thriller, sicuramente un alto prodotto della fucina del regista, è quello di incarnare il classico binomio madre-figlio, da cui partire per scoperchiare, tra funambolismi e innovazioni decise, i luoghi comuni e le certezze di questa coppia, fino a raggiungere scomode posizioni esistenziali, intagliate in un approccio antropologico su cui insiste il nodo centrale della sua filmografia. Affascinante e toccante la contemplazione del groviglio dei sentimenti suppurati che a tratti svela tenerezze improvvise quando, rovesciando i rapporti, è il figlio “ritardato” a prendersi cura della madre, maga delle erbe e dell’agopuntura, sconvolta da se stessa e dalla vita.
MADRE
Regia Bong Joon Ho
Thriller, Drammatico
2009
Corea del Sud
128 min
1 luglio 2021
PFA Films