Scrivo quest’articolo nel giorno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della scomparsa di Luigi Petroselli, uno dei migliori sindaci che Roma abbia mai avuto, artefice, insieme all’assessore Nicolini, dell’Estate romana e di un’altra serie di innovazioni che seppero coniugare sinistra e modernità. Ne scrivo per ricordarne la gioia di vivere, la leggerezza mai fatua, la gentilezza d’animo, la profondità di pensiero e l’abilità nel coniugare le idee con l’azione concreta al servizio dei cittadini. In questo tempo segnato da una politica troppo spesso assente e drammaticamente distante dalle esigenze delle persone, ci manca molto una personalità come quella di questo viterbese trapiantato nella Capitale che seppe conquistarsi la stima e la fiducia dei romani senza mai venir meno alla sua mitezza e alla sua istintiva giovialità.
Occuparsi di Petroselli è, tuttavia, anche un modo per mettere in risalto la crisi che sta squassando tutte le democrazie occidentali, con l’Italia purtroppo in prima linea nella poco invidiabile classifica della sfiducia complessiva dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Le recenti Amministrative certificano il distacco ormai compiuto tra la popolazione e la rappresentanza politica, persino in contesti in cui un tempo il cosiddetto ceto medio riflessivo faceva la differenza, marcando una netta partecipazione alla cosa pubblica. Stavolta non è andata così e, al netto dell’esito del voto e delle convinzioni di ciascuno di noi, hanno perso tutti. Ha perso il nostro stare insieme, ha perso la nostra coscienza civica e critica, ha perso la nostra passione civile, ha perso l’idea stessa che assieme si stia meglio e si possa costruire una comunità d’intenti e un orizzonte di senso che valga per tutti. Hanno vinto la disaffezione, il disincanto, l’abbandono dell’impegno e l’idea, forse qualunquista ma purtroppo non più infondata, che votare serva a poco.
La politica, spiace dirlo, ha dato il peggio di sé, privandoci della possibilità di scegliere i nostri rappresentanti in Parlamento e privandosi degli strumenti necessari, su tutti il finanziamento pubblico ai partiti, per esistere e radicarsi nel tessuto della società. Ne sono derivati partiti sempre meno rappresentativi, gusci vuoti nei quali può infilarsi chiunque, privi di un’ideologia, di una visione comune, di una ragion d’essere, poco più che comitati elettorali al servizio del leader di turno. Non più un’opinione pubblica consapevole e matura, dunque, ma followers modello Twitter: a questo è stata ridotta la militanza. Da qui lo svuotamento delle sezioni, in una sorta di secolarismo politico che ha condotto al degrado anche altri contesti. Prendiamo, ad esempio, il giornalismo, sempre più lontano dalla sua funzione: cercare storie, raccontarle con onestà, dare la parola a chi non ha voce. Oggi è tutto un talk, un insieme di salotti televisivi nei quali sempre gli stessi discettano sulle sorti del mondo, dall’alto di non si sa quale mandato divino, e la vita delle persone viene pressoché ovunque ignorata. Io stesso, ve lo confesso, dopo un po’, per la prima volta in vita mia, cambio canale, avvertendo il fisiologico bisogno di ripulire la mente da una battaglia verbale che non mi appartiene. È venuta meno la rappresentanza, quindi, ma anche la rappresentazione, e i due vuoti, tristemente complementari, costituiscono la peggiore sconfitta per un Paese che, invece, dovrebbe nutrirsi di confronto e condivisione per rinascere davvero.
A tal riguardo, una riflessione particolare la meritano i 5 Stelle. A mio giudizio, non sono mai stati un partito ma uno stato d’animo irrequieto. Non è mai esistito, salvo rare eccezioni, l’homo grillinus, non avendo mai ambito a rappresentare un modello di cittadinanza, anche se va detto che il loro battere sul tasto della partecipazione attiva negli anni in cui altri predicavano il disimpegno è stato comunque più che meritorio. Il M5S, dicevamo, è stato il parcheggio ideale per milioni di voti disillusi e sconfitti, coloro che non credevano più in nulla ma volevano comunque far sentire la propria voce e la propria rabbia. Una cittadinanza diversificata e meritevole di attenzione e rispetto si è rivolta a un soggetto bizzarro più per provare a cambiare i partiti tradizionali che per costruire qualcosa di nuovo, e senza dubbio qualcosa è cambiato nel panorama politico nazionale. Non sempre in meglio, anzi, ma neanche del tutto in peggio. Se il PD è stato costretto ad abbandonare la deriva blairiana, per dire, il merito è stato certamente delle tre crisi che si sono susseguite a partire dal 2008 ma anche del soggetto che prima e meglio di altri ha saputo interpretare il bisogno di rottura e ribellione di una moltitudine inquieta. È mancata e manca loro la pars construens, questo sì, ma abbiamo capito in ritardo che anche distruggere un sistema marcio alle fondamenta può essere di per sé costruttivo, anche se poi è indispensabile dotarsi di un pensiero della crisi per evitare che la furia delle masse sfoci nel ribellismo o in ulteriori forme di populismo e di demagogia. Da questo punto di vista, per il bene della collettività, ci auguriamo che Conta vinca la sua sfida.
Una democrazia compiuta, infatti, non può basarsi sulla sfiducia. Dovrebbero capirlo le forze dell’ordine che ancora non hanno fornito risposte in merito ai propri errori: dalla Diaz e Bolzaneto alla vergogna di Santa Maria Capua Vetere.
E dovrebbe capirlo una parte significativa della magistratura, la stessa che frequenta logge e lobby e concorda nomine importanti con la politica più disinvolta e senza scrupoli. Senza dimenticare coloro che hanno condannato in primo grado un uomo che forse ha sbagliato ma non è certo un criminale a una pena che appare a tutti noi spropositata, specie se andiamo ad analizzare le sue presunte colpe, senza per questo voler compiere una difesa a oltranza che non appartiene al nostro modo di pensare. Se Lucano è colpevole, sconterà la sua pena. Tredici anni, sia detto anche in assenza delle motivazioni della sentenza, ci sembrano francamente una punizione eccessiva e del tutto immeritata. Le leggeremo con attenzione e senza pregiudizi, come abbiamo sempre fatto, ma restiamo dell’idea che la sproporzione nelle condanne rimanga uno degli aspetti più inquietanti dell’attuale contesto italiano.
Una democrazia senza elettori, senza fiducia reciproca, con una classe dirigente complessivamente screditata e in preda al degrado, in cui ormai siamo al tutti contro tutti e si tende ad aver paura persino del vicino di casa: questo siamo diventati. Ma così, ribadiamo, il sistema-Paese è destinato a implodere e la violenza ad aumentare. E non ha senso prendersela con la rete e l’isolamento che pure, in parte, essa genera: se ci sentiamo soli, è perché ci mancano delle sedi di incontro e di confronto e tornare a una stagione precedente, oltre a essere impossibile, sarebbe anche del tutto controproducente. Trasformare “la solitudine del cittadino globale”, per usare una straziante definizione di Bauman, in una nuova forma di partecipazione attiva, che coinvolga ogni settore della società, è la sfida del prossimo decennio. Con meno di questo resterà solo la tecnocrazia, per sua natura incapace e disinteressata a far fronte alla fragilità di un mondo che così non ha futuro.
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