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I poli disgregati col «campo largo»

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In gergo politico stretto si chiama «campo largo». In termini più comprensibili «alleanza larga». Tutto il sistema politico italiano è in rapido cambiamento dopo le elezioni amministrative di ottobre vinte dal centro-sinistra, perse dal centro-destra e dai grillini.

Vuole cambiare Enrico Letta, frantumando le antiche alleanze. Il segretario del Pd punta ad ampliare la coalizione di centro-sinistra sia alle forze centriste come Azione di Carlo Calenda sia ai cinquestelle di Giuseppe Conte. Letta ci lavora da tempo. Ha mostrato come modello l’alleanza vincente nelle elezioni suppletive di Siena (in parte sperimentata nelle Amministrative) che l’ha fatto rieleggere deputato: «Dobbiamo allargare la coalizione, a Siena avevo dentro Conte, Calenda, Renzi e alla fine ha funzionato».

Calenda va ancora oltre, punta a novità dirompenti. Intende scomporre gli attuali poli per poi ricomporli. Un po’ nelle elezioni comunali a Roma c’è riuscito: Azione, il suo nuovo partito, da zero è diventata la prima forza politica della capitale con il 20% dei voti. L’ex ministro dello Sviluppo economico, ex Pd, a livello nazionale immagina un «campo largo» diverso da quello proposto da Letta. Ha descritto il progetto in una intervista a ‘Repubblica’. Vuole «una coalizione che crede nella democrazia liberale, nell’europeismo, pragmatica, competente. Una cosa che non può essere schiava dei tumulti di Raggi, Grillo, Salvini». In sintesi: dentro Pd, centro e sinistra riformista, Forza Italia. Non ha escluso parti della Lega (Giorgetti se lascerà Salvini o diventerà il segretario del Carroccio) e alcuni pentastellati («Patuanelli e Todde sono bravi»).

Il no ai cinquestelle è ricambiato. Conte rilancia l’intesa con il Pd ma annuncia: «Il M5S non sarà mai alleato di Renzi e Calenda». Un bel problema per il «campo largo» immaginato da Letta.

Anche il centro-destra sta provando a cambiare, non si lancia nell’ipotesi di un «campo largo» ma al minimo sindacale: puntellare la traballante alleanza tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia. Già, perché Silvio Berlusconi e Matteo Salvini appoggiano il governo Draghi mentre Giorgia Meloni è all’opposizione. I tre alleati, dopo la batosta alle Amministrative, si sono incontrati nella residenza romana di Berlusconi di Villa Grande: l’impegno solenne è di restare uniti alle prossime scadenze politiche e, in particolare, quando a febbraio dovrà essere eletto il nuovo presidente della Repubblica. L’obiettivo comunicato è di «muoversi in maniera compatta».

Non sarà facile visti i precedenti: nel 2018 il centro-destra si presentò unito alle elezioni politiche ma poi Salvini ruppe il fronte e varò il governo con il M5S, il Conte uno, il primo esecutivo populista dell’Europa occidentale. Qualche mese fa emerse la proposta di una federazione di centro-destra, ma fece poca strada per il no della Meloni. Ma anche una federazione a due, Lega-Forza Italia, sembra che si sia insabbiata per il no di molti azzurri timorosi dell’egemonia salviniana.

La partita per eleggere a febbraio il successore di Sergio Mattarella al Quirinale sarà dirimente. Berlusconi elogia Mario Draghi con il quale vanta «un rapporto solidissimo e antico». Ha sostenuto che il presidente del Consiglio «sarebbe certamente un ottimo presidente della Repubblica» ma restando a Palazzo Chigi «porterebbe più vantaggi al nostro Paese». Il presidente di Forza Italia vorrebbe correre per il Quirinale, lavora ad acquisire consensi partendo dai suoi alleati Meloni e Salvini difesi in sede europea dalle accuse di sovranismo (hanno rotto i ponti con «ogni estremismo»). Ma l’ex presidente del Consiglio è ancora guardato con sospetto dagli antichi avversari del centro-sinistra e dei cinquestelle. Non solo. Storicamente ogni candidatura forte per capo dello Stato è stata affondata. Moro, Fanfani, Nenni, Andreotti, Prodi non ce l’hanno fatta. I loro nomi sono stati “impallinati” in alcuni casi anche prima dei voti segreti dei “grandi elettori”.


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