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Conversazione con Edoardo Albinati: Velo pietoso. Una stagione di Retorica, o dell’arte di separare le cose dal rumore che fanno

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L’ultimo libro di Edoardo Albinati, Velo pietoso. Una stagione di retorica (Rizzoli, 2021), squarcia i veli attraverso i quali si rivela il presente, fuori e dentro il tempo della pandemia. L’abuso sguaiato della retorica nel comunicare; l’impazienza verso tutto ciò che passa quotidianamente davanti a occhi e orecchie; il desiderio come salvezza dall’incombente; lo snobismo che si fa ferma volontà di non tollerare l’ovvio e di selezionare tra le cose; l’arte antica del saper ridere di tutto; la letteratura scelta per narrare la calma disperazione della contemporaneità, così come le manifestazioni della sua natura ridicola; l’anacronistico divieto ai minorenni di vedere il film tratto dal romanzo La scuola cattolica (Rizzoli, 2016). Disvelare è ciò che si è chiamati a fare, nel nostro tempo.

L’ uomo d’oggi ha ereditato un sistema nervoso che non sopporta le attuali condizioni di vita.
In attesa che si formi l’uomo di domani, l’uomo d’oggi reagisce alle mutate condizioni non opponendosi agli urti,
bensì facendo massa, massificandosi. (Eugenio Montale, Nel nostro tempo, Rizzoli, 1972)

 

Edoardo Albinati mi dà appuntamento in uno dei posti più belli di Roma ed è un azzardo dirlo, perché Roma è una meraviglia continua. Ma il Mausoleo di Santa Costanza è esempio davvero commovente di austera e limpida eleganza. Lo scrittore ha suggerito di vederci nel bar interno al complesso monumentale. Entro e vengo travolta da urla: quelle dei bambini in ‘ricreazione’ (un tempo si chiamava così), nel lungo tempo della giornata di scuola. Corrono, ridono, si rincorrono, cadono, piangono, litigano, si abbracciano, come se non ci fosse una fine, come se quella occupazione fosse la cosa più importante del mondo. In effetti, lo è. Ringrazio Albinati per avermi dato la gioia di tanta bellezza. Constatiamo che fare un’intervista qui, fra tante interferenze acustiche, non sarà semplice. Allora, camminiamo un po’ e arriviamo al Mausoleo: uno splendore di mosaici, austerità, giochi di luci e ombre, cristianità e paganesimo. Le voci dei bimbi arrivano sin qui, certo, ma trasmettono un’allegria contagiosa e lontana, mentre noi sorridiamo parlando delle storture, delle censure, della cecità di questo nostro tempo. Ci accomodiamo sulle belle panchine in pietra affacciate sul piazzale antistante e cominciamo a discutere del suo ultimo libro.


Velo pietoso
è raffinato nella lingua, complesso nel contenuto, denso e frammentario. È un atto evidente, eppure nascosto: ciascun pensiero dà modo, in maniera velata, di guardare dove non si guarda, come per non sprofondare nell’abisso, parafrasando Pasolini. Nel suo apparente disperdersi tra argomenti differenti (che vanno dalle letture di Marx, Leopardi, Kafka, ai classici greci e latini, alle considerazioni avvilite su parole abusate, su strade romane abusate, su menti abusate, pensieri abusati, fino a momenti di rivelazione dell’assurdità che ci percorre, come della tragicità che ci percorre), il libro tiene insieme il tempo che ci attraversa, più che il tempo che attraversiamo. Non tanto e non solo il tempo del Covid19, ma questo tempo nel quale tutti, indistintamente, siamo vittime di immagini, suoni, parole, dalle quali veniamo attraversati, per lo più passivamente. È un tempo che riguarda la pandemia, ma anche che prescinde da essa. In che modo nasce questo esile libro complesso?

Nasce in modo molto naturale, spontaneo. Questo libro non è fatto di riflessioni: cioè di cose pensate a lungo, meditate, rimuginate e perfezionate. Questi miei pensieri trascritti in modo corsivo hanno invece un carattere impressionistico, di reazione a uno stimolo. È molto giusta la tua osservazione che non siamo noi ad attraversare questo tempo, ma è piuttosto il tempo che ci attraversa, che ci trafigge, come una pioggia di frecce. Il Covid è solo uno sfondo, potrebbe non comparire affatto nel libro, se non per aver avuto a avuto un effetto peculiare su un po’ tutti noi: si direbbe che l’epoca della pandemia sia stata di maggiore passività, di esposizione quasi indifesa a ciò che ciascuno di noi sentiva in televisione, leggeva e ascoltava. Perciò mi sono soffermato sulle voci che, come frecce appunto, si sono piantate nel lettore o nell’ascoltatore. E quell’ascoltatore ero io: mi sono limitato a registrare sul piano verbale quello che la trasmissione “Blob” fa sul piano visivo; anzi, il titolo del libro l’ho proprio tratto da una puntata del programma, quella del 26 febbraio 2021. Il mio lavoro non è stato tanto diverso: incollare insieme frammenti di ciò che ci sta attorno, ci stimola, ci irrita o fa ridere, la tanta immondizia mescolata a qualche perla di bellezza, qualcosa di tragico e qualcosa di assurdo, tutto insieme. Invece di eliminare le scorie accumulate nel corso della giornata, stendendoci appunto sopra un “velo pietoso”, le ho raccolte, registrate, trascritte. In capo a una ventina di pagine, mi sono reso conto che i frammenti, alcuni molto brevi, altri appena più lunghi, andavano a comporre un mosaico. La malta che tiene insieme quelle tessere mi sembra sia la retorica, l’abuso di retorica dei discorsi contemporanei. Mi riferisco all’attitudine che molti giornalisti, politici, scrittori e commentatori hanno nel voler essere a tutti i costi persuasivi. E quindi, la volontà di eccitare, spaventare, commuovere, creare rabbia, quasi che il discorso debba sempre convincere, senza lasciare mai l’ascoltatore o il lettore libero di comprendere se l’argomento proposto sia vero o falso. La verità insomma non conta, in questi discorsi, conta solo il pathos, l’enfasi di parole d’ordine che, nel tempo della pandemia, sono state particolarmente virulente. Non abbiamo mai sentito tante dichiarazioni, tanti annunci, tante prediche. In questo modo le cose vengono nascoste, vengono velate dalle parole, invece che illustrate.

 

C’è qualcosa di antico, in Velo pietoso. È una raccolta di pensieri sparsi sul contingente, così lontani da riflessione, ricerca, concentrazione su ciò che si è, ciò che si fa, ciò che si dice, per se stessi e per gli altri. Conosciamo voragini che copriamo con parole per lo più brutte: il Sistema – sociale, economico, politico, comunicativo – è fallace e lo nascondiamo a noi stessi. Di fronte a questo atteggiamento generale, in Velo pietoso sembra prevalere un sentimento sugli altri: l’impazienza. Dai frammenti più brevi a quelli più articolati, dai più ironici ai più drammatici, serpeggia, o è palese, la sua impazienza. Eppure, a tratti si ride moltissimo. Ci parla di questo allenamento desueto, ma molto antico, all’arte di saper ridere di tutto che conserviamo, consapevolmente o meno, nella nostra cultura classica, dove la commedia nasce?

Vorrei fare mia un’affermazione di Nietzsche, secondo cui compito del filosofo – ma credo si possa dire anche dello scrittore e in fondo di qualsiasi individuo – è: “Ridere della menzogna, essere dotti e audaci”. Ora, essere sul serio dotti e audaci non è affatto facile. Ci vuole molto coraggio e determinazione. Ridere della menzogna, invece, credo sia alla nostra portata. Tutte le volte, cioè, che sentiamo un’esagerazione, un’iperbole, una falsificazione, fatte o per ignoranza o per dolo o per fini strumentali, io ne rido. Alle volte ne rido di cuore, alle volte amaramente, ma di fronte a certe assurdità e certi equivoci non si può fare altro che ridere. La risata equivale a uno smascheramento. Faccio un esempio tra i tanti possibili, in fondo un episodio abbastanza innocuo: la performance di Pamela Villoresi, che nell’aula del Senato declama l’episodio di Minosse dall’Inferno di Dante, ringhiando e facendo smorfie mostruose. Questa visione, in me, provoca riso. Non mi provoca lo sdegno del “Oh, il povero padre Dante storpiato!”, ma mi provoca un riso salutare, il quale implica in sé il giudizio senza bisogno nemmeno di formularlo: ridere di qualcosa significa di per sé, in alcuni casi, averne compreso l’insensatezza. Nel mondo della cultura, o di quello che si pensa sia e debba essere la cultura, episodi che portano al riso se ne contano a bizzeffe. La capacità di reagire all’assurdo è un segnale positivo, un soprassalto di impazienza, poiché non tutto deve lasciarci indifferenti, non è possibile tollerare qualsiasi sciocchezza. L’indulgenza sarà senz’altro una virtù, ma bisogna comunque esercitare la critica, cioè usare un setaccio per distinguere le cose. Scrivendo Velo pietoso temevo che la mia impazienza avesse oramai un carattere senile, cioè di vecchio brontolone che si arrabbia per i mucchi di immondizia in strada o per le “fregnacce” (sciocchezze, per i non romani, ndr.) snocciolate ogni sera in TV. Invece, qualcuno (Sandro Veronesi nella sua bella recensione a questo libro, in “Corriere della Sera” del 29 agosto 2021 ndr.) ha fatto notare che si tratta piuttosto di un impeto giovanile. Un ragazzo è giustamente intollerante, mentre con l’età si finisce col perdonare tutto, col sopportare tutto, oppure si diventa apatici, indifferenti. Ecco, io vorrei essere capace di arrivare sul serio a un sereno distacco, alla saggezza insomma, ma ancora non ci riesco. L’espressione stessa “stendere un velo pietoso” è contraddittoria: dato che si finisce per parlare di una certa cosa sulla quale al tempo stesso si invoca il silenzio: nel linguaggio della retorica (nel senso nobile della parola) questa si chiamerebbe “preterizione”. Ed è ciò che spesso fa la letteratura: maschera, vela le cose ma poi squarcia quello stesso velo. In parte, la letteratura crea un po’ di sollievo perché dà una forma alle cose che sono informi, d’altra parte, però, dà anche un peso a esperienze che si preferirebbe subito lasciarsi alle spalle. L’impazienza può essere anche un sentimento positivo: temo che siamo diventati fin troppo tolleranti, e un po’ d’impazienza può guarirci da questa specie di rassegnazione. Dovremmo esercitarci ad avere un po’ di attenzione verso ciò che ci infastidisce, oltre che verso ciò che ci piace.


C’è una frase di Seneca che credo si addica a questo libro: “Abbiate soprattutto il desiderio di separare le cose dal rumore che fanno”. Considerando la sua impazienza attuale, che margine di fiducia ha verso il futuro?

Non riesco affatto a immaginare il futuro. Non possiedo quello sguardo che nel gioco degli scacchi si chiama “profondità di mossa”: alcuni giocatori molto bravi riescono ad anticipare mentalmente le 15 o 20 mosse successive. Ecco, io non riesco a immaginare le mosse future, né quelle mie né quelle degli altri. Ma è vero che una qualche forma di evasione da questo presente, sia essa nel passato o nel futuro, deve esserci permessa, poiché il presente da solo è insostenibile, è una vera prigione. Non parlo però di speranza. Preferisco la parola desiderio. Stevenson diceva che è più bello scrivere di ciò che si desidera fare, piuttosto che di ciò che si è fatto. In questo margine di puro e semplice sogno, l’elaborazione di fantasie, che magari non si avvereranno mai, si realizza la letteratura. In letteratura, cioè, si crea un ampliamento della realtà e dell’esperienza comune, attraverso il desiderio, che può rendere sopportabile l’incombente. Le incombenze quotidiane pesano come macigni sulle nostre vite. Il desiderio è l’unico modo per sfuggirvi, magari illusoriamente, senza necessariamente raggiungere le soddisfazioni di cui si andava in cerca. E’ il desiderio che ci consente di arrivare almeno fino a domani, se non più in là. Non parlo di speranza perché essa si riferisce sempre a un oggetto, si spera cioè che avvenga “qualcosa”, mentre il desiderio non sa cosa desidera. Il desiderio è una pura spinta vitale, semmai trova realizzazioni diverse da quelle che uno era convinto di essersi proposto come scopo. Se la speranza fallisce il suo obiettivo (come spesso accade), subentra appunto la disperazione. Il desiderio è invece indistinto e inestinguibile, sparisce e poi si riaccende, ma può essere spento definitivamente soltanto da se stesso, non da forze esterne.

 

Velo Pietoso è un libro che si legge nei momenti di pace, di pausa dal frastuono quotidiano. Sembra costruito per far comprendere al lettore, nel momento in cui riesce a staccarsi dal rumore delle cose, quello che gli sta vivendo attorno. Questa struttura frammentaria è stata concepita con lo scopo di condividere anche col lettore piccoli momenti di consapevolezza, o il tempo sospeso della pandemia le dava modo, mentre scriveva, di soffermarsi su singoli accadimenti, più o meno personali, legati esclusivamente a una sua visione del mondo?

La struttura frammentaria è molto comoda, per la verità. Proprio la frammentarietà crea interlocuzione, intercambiabilità tra chi scrive e chi legge. Il lettore, cioè, o condivide alcune delle mie idiosincrasie, le situazioni e gli aneddoti annotati del libro, oppure non li condivide, ma in ogni caso partecipa attivamente. E’ infatti un libro che avrebbe potuto scrivere chiunque magari mettendoci dentro altri pezzi, altri episodi. Qualcuno mi ha proposto di creare una rubrica su un quotidiano intitolata, appunto, Velo Pietoso. Ho risposto che l’idea era buona, e che potevo inaugurarla io, ma avrebbe avuto più senso, poi, affidarla ad altri, a rotazione. Non per forza intellettuali o scrittori, ma lettori comuni: penso che gli argomenti di Velo Pietoso potrebbero essere sostituiti da altre riflessioni e accadimenti che hanno provocato sconcerto, risentimento, risate. Lo permette la formula stessa del diario: è semplice, immediata, non ha pretese di completezza e potrebbe essere integrata da altre esperienze, altre frasi fatte, altre espressioni abusate, altri esempi di cialtroneria.


Nel libro sono evidenti approcci con gli strumenti di comunicazione più quotidiani: la tv, la radio, i giornali. Parla poco dei social network. Eppure, quelle manifestazioni di cialtroneria che cita si concentrano soprattutto sui social. Facciamo qualche esempio delle espressioni che riporta in Velo Pietoso: “Resilienza, smartworking, comfort zone, assolutamente sì, un silenzio assordante, la ‘crociera’ dei migranti, la retorica sulla morte di Franco Battiato in relazione all’eruzione del Vulcano (‘Anche l’Etna omaggia il Maestro’), non ce n’è per nessuno, non si va da nessuna parte, tanta roba, al netto di, in qualche modo, quant’altro, ogni tre per due”. Non soffermarsi su questi potentissimi mezzi di diffusione della sciatteria contemporanea è stata una scelta precisa?

Io non sono registrato su nessun social media; quindi, ne ho una percezione solo indiretta. Ma molte cose di cui parlo nel libro mi sono arrivate da altri che le avevano a loro volta trovate sui social. Peccato che il libro termini alla fine di giugno 2021, la raccolta avrebbe potuto continuare, episodi buffi o sconsolanti continuano ad accadere come e più di prima. L’inaugurazione della statua della Spigolatrice di Sapri col culo di fuori, ad esempio, mi è stata segnalata da qualcuno che ne aveva trovato le fotografie su Twitter. L’astinenza dai social media per me è una mano santa: se si aggiungessero anche loro a intasare la mia mente già affollata di sollecitazioni di ogni tipo, sarebbe la fine. Oggi quasi tutte le informazioni ci giungono per via indiretta: il 90% delle cose di cui veniamo a conoscenza, le sappiamo perché qualcuno ce le ha segnalate. Nessuno, dunque, può dirsi immune dai social, pur tenendosene a distanza. Se anche stai fuori dai social, insomma, almeno un pochino ci starai dentro. Mi pare più difficile il contrario: se stai dentro potrai riuscire a starne fuori? Non credo.

Mi hanno incuriosito le recensioni al libro scritte su alcuni giornali di destra. Emerge, unanime, la definizione di Edoardo Albinati come di uno snob (e forse in questo rientra anche il fatto di non iscriversi ai social). Come si amalgama, come si integra l’impegno civile, sociale, etico, intellettuale, con questo snobismo che le viene imputato come una colpa originale, da certa critica?

Io non rifiuto per nulla questa definizione. Al posto di snob, solitamente, viene utilizzato “radical-chic”, che è forse l’espressione usata oggi più a sproposito, chi la tira fuori di continuo non sa nemmeno cosa significhi. In ogni caso, se lo snobismo significa non avere energie o voglia di dedicare tempo a qualcosa che non lo merita, perché non provoca in me piacere o conoscenza, io sono snob. Se lo snobismo vuol dire essere selettivo, provare schifo verso quello che fa schifo, io mi fregio di questa definizione. Ma lo snobismo di cui parlo non ha un carattere esclusivo verso niente. È un modo di essere completamente privo di connotazioni di classe o di cultura. Pur essendo io di estrazione borghese, ho un’enorme curiosità verso ciò che proviene da ogni livello e parte del mondo, purché non si tratti di cose scontate. Lo snobismo, se lo si vuole intendere così, è esattamente la non volontà di accettare il partito preso, la volgarità dei luoghi comuni. Verso i luoghi comuni ho una idiosincrasia forte, non la nascondo affatto, lascio volentieri che qualcun’altro eserciti e perfezioni la banalità. Però non mi si può chiedere di stare ad ascoltarlo o assecondarlo. Questo significa essere snob? Se la non accettazione degli slogan da quattro soldi corrisponde allo snobismo, allora sì, sono snob.


“Il bello è solo l’inizio del tremendo” Rainer Marie Rilke sta tra le diffuse citazioni che compaiono d’improvviso tra un pensiero e l’altro di Velo Pietoso. Come associazione, ricordando bene questa di Rilke in particolare, ho pensato agli ultimi versi di Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni: “Sono giunto alla calma disperazione”. Rispetto all’impazienza di cui abbiamo detto, nel libro è presente anche una neutra, calma disperazione, che alle volte sembra prendere il sopravvento su ironia, impazienza, noia, snobismo e ha il suo apice nel frammento più lungo, dove racconta la morte della piccola Giovanna Fatello (un atroce fatto di negligenza sanitaria, descritto nel libro tra pagina 98 e pagina 103, ndr.), uccisa a 10 anni dalla cinica cialtroneria di alcuni medici. Ci parla della sua “calma disperazione”?

La disperazione è l’altra faccia dell’umorismo. Alcune cose non sono divertenti grazie al mio modo di raccontarle, ma lo sono per loro stessa natura. E così le storie drammatiche. La morte di Giovanna Fatello non è tragica per come l’ho scritta, lo è in sé. Uno scrittore dovrebbe essere capace di rendere al lettore la pura nudità dei fatti. La storia di questa bambina contiene elementi che, messi insieme, senza nessuna enfasi, senza nessun pietismo, senza nessuna indignazione, creano tragedia. Non c’era alcun bisogno di caricarle con alcun pathos supplementare. Esattamente come le cose divertenti. Questo tipo di sguardo spassionato dovrebbe ispirare la scrittura, il giornalismo, ma anche i nostri discorsi privati: certe volte dovremmo sforzarci di riportare, tramite le parole, le cose così come sono. Ciò che importa sono le storie, non l’effetto che le storie fanno. Ecco cosa intendo per retorica, nel sottotitolo del mio libro: il culto esclusivo dell’effetto è il nostro problema. La tragicità, se sta dentro ai fatti, la si trasmetterà anche a chi legge. Ma non è affatto facile raggiungere l’impersonalità. Tendiamo tutti a rafforzare l’eco del nostro dire, o del nostro scrivere, forse per insicurezza, come se non fosse abbastanza convincente o patetico. Ecco, la triste storia di Giovanna Fatello diventa esemplare di come la cialtroneria, l’approssimazione, il menefreghismo possano diventare criminali. Bastava, letteralmente, “riportarla” sulla pagina. Il reporter consegna, non aggiunge niente di suo. Deve, semmai, selezionare. Nel caso della vicenda di questa bambina, infatti, ho dovuto selezionare, tra le 200 pagine di sentenza del processo, alcuni precisi elementi. Ce ne erano anche altri, alcuni persino più ridicoli, drammatici, o patetici, io mi sono limitato a scegliere e comporre un collage, in modo che quell’episodio servisse a reggere, come uno scheletro di senso, tutto il resto del libro, con quanto ha di frammentario, transitorio e persino di frivolo. Uno dei temi di questo libro è la faciloneria, e con la massima chiarezza nell’episodio di Giovanna credo che si riesca a capire come il danno provocato dalla faciloneria e dalla superficialità possa essere micidiale. Giungere a questo punto di neutralità spassionata nello scrivere è un esercizio, non tanto stilistico, quanto esistenziale: è una postura dello spirito che forse permette di dire, una volta tanto, le cose come sono, dritte per dritte, senza doverle condire, spingere, gonfiare.


Per concludere, vogliamo calare un velo pietoso, confermandone quindi l’assurdità, sul divieto ai minori di 18 anni, imposto la settimana scorsa, all’uscita della pellicola nelle sale, da due commissioni ministeriali al film di Stefano Mordini La scuola cattolica, tratto dal tuo romanzo, vincitore del Premio Strega 2016?

Sarò breve. Penso che questa bizzarra forma di censura (precisare che la vera censura sta nei tagli di pellicola, mentre i divieti per fasce d’età non sono censura è un argomento ridicolo) sia stata applicata perché La scuola cattolica tratta una storia vera, talmente vera da turbare le coscienze degli adulti, non certo quelle dei ragazzi. E poi si tratta di un provvedimento anacronistico: le persone che lo hanno preso sembrano non avere la minima idea di cosa passa oggi per le menti, per gli occhi, per gli schermi dei ragazzi di oggi: cose infinitamente più perverse, pornografiche e cruente di quanto si veda in un film che sto giudicando come semplice spettatore, non come autore del libro da cui è tratto. Ci sono videogiochi per bambini cento volte più violenti delle immagini del film. È passata dunque l’idea che i ragazzi debbano essere protetti dalla realtà: e questo mi pare abbia assai poco di educativo.


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