Si è votato in alcune delle principali città italiane e i risultati parlano chiaro: ha vinto nettamente il centrosinistra, passando al primo turno a Milano, Napoli e Bologna, presentandosi al ballottaggio in testa a Torino e leggermente indietro a Roma, mentre a Trieste il distacco fra Dipiazza, candidato del centrodestra, e Russo, candidato del centrosinistra, è consistente anche se non costituisce un divario incolmabile. E fin qui siamo alla cronaca politica, certamente interessante, specie per le conseguenze che avrà sul panorama nazionale, data l’importanza dei comuni chiamati al voto. Poi, però, c’è il dato più rilevante: l’astensione. Oltre metà dell’elettorato è rimasto a casa, tanto che solo a Bologna si è superato il 50 per cento dei potenziali elettori mentre altrove si è scesi al di sotto, con la conseguenza che ovunque si respira un senso di vuoto che sta diventando ormai allarmante. Finalmente, lo ha rilanciato in prima pagina il Domani, si torna a parlare di finanziamento pubblico ai partiti, dopo la sbornia populista che ne ha chiesto e ottenuto l’abolizione, con il risultato di ritrovarci oggi con dei gusci vuoti, delle scatole di cioccolatini nelle quali si può pescare la qualunque e bisogna affidarsi alla saggezza del segretario di turno per scongiurare il disastro. Senza corpi intermedi una democrazia non è più tale, deperisce, si perde, e questo è avvenuto in Italia nell’ultimo decennio.
Ascoltare la rabbia di chi non ha votato, comprenderne lo sgomento e rendersi conto che così non si può andare avanti dev’essere, dunque, un imperetivo soprattutto per il centrosinistra: non solo perché ha vinto nettamente questa tornata ma perché la sinistra senza popolo è una contraddizione in termini. A tal riguardo, ci permettiamo di consigliare al neo-eletto deputato senese, al secolo Enrico Letta, di valutare con attenzione se sia il caso di continuare a elogiare un governo che è la massima espressione del declino, per non dire proprio della scomparsa, della politica. Va bene, infatti, essere responsabili, va bene sostenere lealmente Draghi nei prossimi mesi, va bene non lasciarsi andare a fughe in avanti che potrebbero rivelarsi inutili e dannose, ma Letta e il PD hanno il dovere di chiarire agli occhi di chi, ancora una volta, ha dato loro fiducia che un governo con Salvini e la Lega è quanto di più innaturale possa esistere e che questo stato d’emergenza non può continuare all’infinito. Ricostruire una coalizione di centrosinistra, movimentista, attenta alle istanze ambientaliste, vicina ai giovani, alle donne e a tutto ciò che di straordinario si muove nel grembo della società passa, inevitabilmente, anche dalla presa d’atto che i governi patersacchio con tutti dentro sono assolutamente deleteri, pertanto devono essere superati per far ritorno alla fisiologica contrapposizione fra i due schieramenti.
Ciò detto, è evidente che nessun oppositore interno, e ne ha tanti, potrà ora chiedere a Letta un congresso o una resa dei conti. Piuttosto, dopo il ballottaggio, dovrebbe essere proprio Letta a chiarire, nelle modalità che riterrà più opportune, che il futuro del PD è a sinistra, rifondandosi, ritrovando un senso e una ragione di esistere, superando e facendo ammenda per l’innumerevole serie di errori compiuti negli ultimi vent’anni.
Nel merito, Salvini e Meloni sono costretti alla resa dalla loro incapacità di trovare una classe dirigente all’altezza al di là di sé stessi, di costruire una comunità che non sia solo un insieme di individualità, di valorizzare un lavoro di squadra che da quelle parti è inesistente o quasi, con la conseguenza di aver presentato pressoché ovunque candidati improbabili e sonoramente sconfitti anche dal giudizio negativo di una parte dell’elettorato di destra. Salvini, in particolare, subirà il commissariamento dei draghiani del suo partito, da Giorgetti ai governatori del Nord, e possiamo dire che abbia intrapreso la parabola discendente dopo aver raggiunto la vetta del 34 per cento alle Europee del 2019. La Meloni, che ha i suoi guai da fronteggiare, anche per via dei troppi esponenti del suo partito che proprio non ce la fanno a recidere i legami con un percorso storico imbarazzante, rimarrà in sella ma potrebbe essersi condannata a un ruolo ancillare o all’opposizione eterna, non essendo in grado, per come sono strutturati i Fratelli d’Italia, di proporsi come credibile alternativa di governo.
Quanto a Renzi e Calenda, non c’è dubbio che stiano facendo un pensierino al centrodestra, magari provando a ricoprire il ruolo di un partito liberale e centrista alleabile un po’ dappertutto ma con lo sguardo ben rivolto verso il liberismo, che ha devastato il pianeta ma ancora da quelle parti gode di numerosi estimatori.
La spinta trumpiana si è esaurita, e con essa anche la destra a trazione sovranista. La nuova destra dovrà ripensarsi su base diverse, dovendo però fare i conti col fatto che ormai la sbornia post-’89 si è esaurita e che a credere ciecamente nel blairismo è rimasto solo l’uomo di Rignano, il cui problema principale, come si evince anche dai dati elettorali emersi da queste Amministrative, è che è ormai fuori dal tempo.
La sfida del Quirinale ci fornirà indicazioni essenziali per il nostro futuro, essendo destinata a modificare e delineare gli scenari del Paese per il prossimo decennio.
L’unica certezza è che senza popolo non c’è democrazia e, meno che mai, sinistra, e questo almeno Letta e Conte, sul cui operato alla guida dei 5 Stelle preferiamo sospendere momentaneamente il giudizio, sembrano averlo capito.
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