Quindici anni dall’assassinio di Anna Politkovskaja, la straordinaria cronista della Novaja Gazeta, cui dobbiamo alcune delle principali rivelazioni sulla barbarie inaccettabile del regime quotidiano. Quattro anni dall’omicidio di Daphne Caruana Galizia, la coraggiosa giornalista maltese che denunciava la corruzione nel suo Pese e ha pagato con la vita il suo grido disperato in nome della legalità. E poi due premi Nobel, assegnati a Maria Ressa, fondatrice di Rappler e tra le più ferme oppositrici del tirannico governo di Rodrigo Duterte nelle Filippine, e a Dimitrij Muratov, direttore proprio di quella Novaja Gazeta che, come ricordavamo, è sempre stata una spina nel fianco per il sistema di potere che da oltre vent’anni domina in Russia. È una notizia che ci riempie di gioia e d’orgoglio; tuttavia, ci induce anche a riflettere sul fatto che per troppo tempo non si sia discusso adeguatamente della necessità di una buona informazione, presidio democratico indispensabile per guardare al futuro connottimismo. Le condizioni in cui versa la libertà di stampa a livello globale, infatti, sono pessime. E non c’è bisogno di prendere a esempio note dittature per rendersi conto che lo spazio si sta restringendo sempre di più. Basti pensare alle concentrazioni editoriali, alla presenza sempre più diffusa di editori impuri, alle minacce ricorrenti, alle querele temerarie, alle intimidazioni e all’impossibilità di lavorare per moltissimi cronisti, costretti ad agire in terra di frontiera e a subire pressioni d’ogni sorta.
Ricordare Anna e Daphne, pertanto, significa portare avanti le loro battaglie, seguire il loro esempio, non arrendersi di fronte ad alcun sopruso, non rassegnarsi al male, non smettere di parlare, di scrivere e di testimoniare. Insomma, essere giornalisti giornalisti, con la schiena dritta, la testa alta e asserviti a nessun potere. Altrimenti non basterà un Nobel, per quanto straordinario, a rendere migliore la nostra professione e questo pianeta.
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