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3 ottobre 2013 – Omissione di soccorso

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Lampedusa è l’isola di pescatori eroi che hanno salvato decine di naufraghi, l’isola dell’accoglienza diventata famosa e celebrata come tale in tutto il mondo. Tutto questo è certamente vero, è autentico il coraggio delle donne e degli uomini lampedusani, ma c’è una omissione che come un fantasma in questi otto anni, è rimasta sullo sfondo del naufragio del 3 ottobre 2013, una tragedia raccontata fino ad ora in modo parziale. Sono mancate tre parole che fanno la differenza e che la celebrazione che si ripete ogni anno, così importante perché vuole preservare e custodire la memoria, non dovrebbe più ignorare. Quelle parole sono: omissione di soccorso.

Sono le tre parole al centro dell’inchiesta di Spotlight, il programma di inchiesta di Rainews 24, su quel naufragio. Una indagine giornalistica nata dalla richiesta esplicita e determinata che ci è arrivata dai superstiti e dai familiari delle vittime, una richiesta di verità e di giustizia. Dice Adal Neguse che ha perso un fratello in quel naufragio: “Stiamo ancora chiedendo un’inchiesta che riveli la verità. La verità deve venire fuori. Vogliamo sapere la verità, non ci riporterà indietro i nostri cari, lo sappiamo, ma conoscere la verità darà sollievo al nostro dolore”.

Il naufragio

Quella notte il barcone con oltre 500 persone a bordo è arrivato dalla Libia a ridosso delle coste dell’isola intorno alle 3 di notte. Poco dopo, due barche a poca distanza l’una dall’altra si avvicinano verso il barcone mentre, con il motore fermo l’acqua comincia a salire sul piano più basso dello scafo. Solomon era a seduto sul ponte più alto, in braccio un bambino di quattro mesi, sulle sue ginocchia dormiva la madre del bimbo che aveva paura del mare e aveva preso pillole per dormire durante il viaggio. “Non posso dire esattamente da quale direzione siano arrivati. Ricordo solo che da Lampedusa arrivarono due barche e pensammo che fossero venute ad aiutarci. Quando si sono avvicinati, abbiamo iniziato a prepararci perché pensavamo che stessero per salvarci. Ma quando se ne sono andati, abbiamo pensato: ok torneranno”. Amanuel era seduto sul ponte, dove i corpi erano pigiati uno all’altro, senza la possibilità di alzarsi in piedi. “Le due barche sono arrivate insieme. La prima si è fermata e ci ha illuminato. La seconda ci è venuta vicino e ci ha girato intorno. Era molto ventoso, non abbiamo potuto parlare con loro.” Adhanon era seduto a poppa. “La prima barca ci ha puntato un faro accecante contro, mentre la seconda ci ha girato intorno. Una ci guardava e l’altra ci girava intorno, sembrava un atteggiamento militare. Poi la barca che ci ha girato intorno è andata verso l’altra barca e, insieme sono andate verso Lampedusa.”

L’euforia si è subito trasformata in delusione. Avevano già iniziato a prepararsi, a svegliare i bambini, a raccogliere le loro cose. Ma non era ancora il momento del riposo dalla fatica di quel viaggio, che per molti di loro era stato preceduto da mesi di prigionia e di torture in Libia.

Il barcone si era fermato di fronte alla Tabaccara, un angolo di paradiso a sud dell’isola, accanto all’isola dei conigli. Un posto di giorno affollato dalle barche dei turisti, ma deserto e silenzioso in quella notte senza luna. Erano soli, il mare piatto, in lontananza le luci dei pescherecci. In quello stesso momento sul molo Favaloro sulle motovedette 301 e 312 della guardia costiera finivano le operazioni di sbarco dei migranti soccorsi ad un paio di miglia dall’isola appena due ore prima.

Il barcone con oltre 500 persone a bordo è rimasto fermo in quel paradiso buio per ore, mentre l’acqua continuava a salire e a rendere sempre più instabile lo scafo. Ricorda Amanuel: “Quando le barche sono andate via abbiamo iniziato a perdere le speranze. Il capitano ha iniziato a fare segnali con una torcia. Noi urlavamo per attirare l’attenzione”. Adhanon non capiva cosa stesse dicendo lo scafista che urlava in arabo e litigava con qualcuno a bordo: “Io ero seduto dietro, non ho visto il capitano. Ho solo sentito le proteste delle persone che erano contrarie a bruciare qualcosa, ma il capitano lo fece lo stesso: bruciò la maglietta”.

Il kerosene sul ponte si è incendiato.

La gente è scappata dall’altro lato.

Il barcone si è rovesciato.

Si sono salvati in 155. Sono riusciti a restare a galla fino alle sette del mattino dopo quando è arrivato il motopesca Gamar e ha dato l’allarme.

Il recupero dei corpi è andato avanti per due settimane. Dice Giusi Nicolini, allora sindaco di Lampedusa: “è come se per la prima volta ci fosse stato sbattuto in faccia attraverso le immagini della televisione, quel dramma rimasto invisibile fino a quel momento”.

Tra le vittime di quella strage c’era una donna incinta, ha partorito proprio mentre la barca affondava. L’hanno trovata sul fondo del mare con il piccolo ancora attaccato al cordone ombelicale. Li hanno messi in una sola bara. 366 bare hanno portato via quei 367corpi. Qualche giorno dopo un altro corpo è affiorato tra gli scogli della spiaggia dell’isola dei conigli. Quel giorno ci siamo arrampicati sulla collina perché la strada era bloccata dai militari. Era verso la fine di ottobre. Visto dall’alto quel corpo sembrava di plastica. Era bianco come un foglio bianco e le onde lo spingevano dolcemente sulle rocce. Sembrava elastico, snodato come se non avesse ossa. Dalla stradina Giusi Nicolini camminava a passo spedito seguita da alcuni militari. Erano almeno due settimane che andava ad accogliere personalmente ognuno di quei copi riportati dal fondo del mare o arrivati da soli, come in quel caso. Ricordo che quella volta esitò, camminava nervosamente sulla sabbia fine di quella spiaggia che aveva ricostruito lei stessa cacciando gli abusivi che la stavano devastando. Poi decise che era troppo. Quell’ennesimo corpo è stato raccolto in un sacco e portato via. Per questo c’è questa differenza tra la conta ufficiale di 366 morti e la conta più nota dei 368. Ai 366 va aggiunto il bambino nato nel naufragio e quel corpo che in realtà avrebbe anche potuto essere naufragato in un giorno diverso dal 3 ottobre, ma che in quel momento, non avevo voluto lasciare da solo.

Mai visti prima di allora tanti corpi in un solo naufrgio. Dice Giusi Nicolini: “che quelle persone già arrivate a Lampedusa, siano morte perché qualcuno ha fatto finta di non vedere è qualcosa di insopportabile”

Lo scafista

Nell’estate del 2014, quasi per caso, ho incontrato Khaled Bensalem, lo scafista del 3 ottobre, nel carcere di Agrigento. Con Ninni Farina, l’operatore con cui per anni ho raccontato l’isola di Lampedusa ed il Mediterraneo, avevamo chiesto di poter parlare con qualcuno degli scafisti detenuti. In una stanza spoglia ci hanno portato lui, capelli corti, una maglia con la bandiera cubana, cieco da un occhio “da quando ero bambino” ci ha detto. Era ancora in attesa del primo grado di giudizio ed aveva una determinata volontà a difendersi. In quel momento era indicato come il solo responsabile di quel naufragio. “Non è colpa mia, è vero, non è colpa mia. Sono responsabile, ma non è colpa mia tutta la tragedia.” È scoppiato in un pianto disperato e poi ha ripreso il racconto. “È arrivata una prima barca, ci ha illuminati e ci ha girato intorno. Una delle due barche era blu, l‘altra non sono riuscito a vederla. Non hanno fatto niente, sono andati via. Si, è vero, io sono lo scafista, è colpa mia, ma perché quelle barche non ci hanno soccorsi?”

Già, perché?

L’inchiesta della procura di Agrigento si è basata su un elemento chiave: i tracciati del sistema AIS , Automatic identification System, un rilevatore satellitare, obbligatorio per i pescherecci, che identifica, traccia e registra la rotta e la velocità delle barche. Il peschereccio Aristeus di Mazara del Vallo, è stato incastrato proprio da quel tracciato. Lo dice con chiarezza la perizia del consulente della procura, l’ammiraglio Vittorio Alessandro, che individua l’area in cui era il barcone dei profughi prima di affondare.

Il tracciato dell’Aristeus è l’unico, tra le imbarcazioni con AIS transitate quella notte davanti a Lampedusa, a entrare nell’area del naufragio, a rallentare e a fermarsi per un’ora, tra le 3 e le 4 del mattino.

Mazara del Vallo

Le telecamere di Spotlight hanno incontrato per la prima volta il comandante dell’Aristeus, Matteo Gancitano, oggi settantenne e ancora al lavoro, che ha negato tutto con grande determinazione: “Non ho visto niente, né io né il mio equipaggio” ha detto a Raffaella Cosentino. A dicembre 2020 è stato condannato per omissione di soccorso a 6 anni, quattro anni ai sei membri dell’equipaggio. Nelle motivazioni della sentenza si legge che avrebbero visto il barcone ed evitato di chiamare i soccorsi perché dovevano scaricare il pesce in porto e riprendere il mare per una nuova battuta di pesca.

Una fonte che ha chiesto di restare anonima, ci ha confermato che era proprio l’Aristeus una delle due barche italiane che quella notte ignorò le richieste di aiuto dei migranti prima che fosse troppo tardi. Ha chiesto a Raffaella Cosentino di incontrarsi lontano dal porto ed ha detto che il comandante ha ordinato “di andare via, di fare finta di niente. Perché? Non lo so, perché. È la loro mentalità, mentalità di merda che pensa prima alla pesca”.

Quindi la barca l’hanno vista. Il nostro testimone dice che non hanno fatto niente per soccorrerla perché avrebbero perso il pescato. Non sappiamo chi ha preso questa decisione ma dalle sue parole emerge che l’equipaggio è sotto pressione: “mio padre era arrabbiato per lo stipendio che era poco e gli ha tolto pure altri 500 euro per pagare l’avvocato. Ma che discorsi sono? Un marinaio prende mille euro di questi tempi e tu gli togli 500 euro?”

La seconda barca

La seconda barca avvistata dagli eritrei sicuramente non era tracciata con il satellitare. Negli anni si è anche parlato di una motovedetta istituzionale. È stato Khaled Bensalem, lo scafista a parlarne. Dopo la condanna a 18 anni, ha cambiato versione e ha parlato di una motovedetta, una barca militare che sarebbe arrivata subito dopo l’Aristeus. Il magistrato Andrea Maggioni ha smentito l’ipotesi della motovedetta istituzionale. L’avvocato Gaetano Pasqualino dell’associazione Progetto Diritti Onlus spiega però, che i tracciati delle motovedette della guardia di finanza e dei carabinieri: “non ci sono , dunque le ipotesi sono tutte legittime e ancora aperte”.

La notte del naufragio due motovedette della guardia costiera partono da Lampedusa per un soccorso. Nei tracciati è evidente il movimento delle Charlie Papa 301 e 312. Il comandante Miserendino della Gdfci conferma che in quelle stesse ore c’era anche una motovedetta della Finanza coinvolta nelle operazioni, ma il suo segnale satellitare è criptato e non viene registrato dall’AIS.

Le motovedette viaggiano insieme, sfiorano senza mai rallentare l’area dove è arrivato il barcone naufragato. Entrano in porto alle 2.30 di notte. Un’ora prima di quando il peschereccio Aristeus rallenterà fino a fermarsi nell’area intorno al barcone poi naufragato.

15 metri

Giusi Nicolini ha parlato molte volte con i superstiti. nei loro racconti la barca militare non è mai emersa. Così come mai è citata nei verbali delle dichiarazioni raccolte subito dopo il naufragio dal magistrato Andrea Maggioni che non ha trovato riscontri di nessuna seconda barca.

Non ci sono testimonianze e non ci sono prove agli atti della presenza di motovedette. Ma che fossero due barche lo confermano, da sempre tutti i superstiti: l’Aristeus e una seconda barca che certamente non aveva il sistema AIS visto che non appare nei tracciati.

Ma non deve per forza apparire nei tracciati se non ha il dispositivo acceso. Certo è che su eventuali barche senza AIS non sono state fatte indagini e nessuno si è mai preoccupato di capire quali fossero.

Nel fascicolo dell’inchiesta c’è un documento firmato dal comandante Cannarle a settembre 2014 in cui c’è scritto che tutti i motopesca sopra i 15 metri di lunghezza hanno l’obbligo di avere installato il sistema AIS. Ma al momento del naufragio non era così. Avevano il satellitare solo quelle sopra i 18 metri. Quindi ci sono molte barche di media grandezza senza tracciato, di cui possiamo conoscere solo gli orari di entrata e uscita dal porto sui registri della capitaneria.

Nessuno ha mai interrogato i proprietari di quei motopesca senza satellite. Nessuno ha fatto un controllo incrociato con i registri di entrata e uscita dal porto quella notte. Nessuno sembra aver davvero cercato di identificare quella seconda barca.

Otto anni dopo la verità su quella strage è solo parziale.

Dice Solomon: “Se avessero avuto un cuore non ci avrebbero mai abbandonati in mare. Se fossimo stati al loro posto, se avessimo avuto il potere di quelle due barche che ci hanno illuminati e sono andate via, li avremmo salvati tutti. Perché sono andati via? Perché ci hanno lasciati annegare?

Tragedie come questa accadono continuamente, ancora oggi. Io vorrei che chi può intervenire pensasse che ognuno di quei rifugiati sia un loro fratello o una loro sorella. La nostra vita ha lo stesso valore.”

 


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