È trascorso un anno da quando Willy Monteiro Duarte venne assassinato da quattro bulli che si erano già distinti per numerose “imprese” che avrebbero richiesto, quanto meno, maggiore attenzione da parte delle forze dell’ordine. Fatto sta che questo primo anniversario ricorre al termine di un’estate in cui abbiamo ricordato i fatti di Genova di vent’anni fa, quando una violenza abbastanza simile venne esercitata da persone in divisa, cioè al servizio dello Stato, ed è quindi opportuno estendere il discorso e riflettere insieme su un virus non meno pericoloso del Covid: il fascismo. Perché è di fascismo che sta morendo questo Paese, con il suo abisso di barbarie, ferocia e disumanità che da vent’anni infesta la nostra società e al quale alcune forze politiche strizzano palesemente l’occhio.
La responsabilità penale è personale, per carità, ma non c’è dubbio che le belve di Colleferro abbiano agito in un preciso clima socio-politico, assai favorevole alla discriminazione e alla crudeltà nei confronti di chiunque abbia la pelle di colore diverso o qualunque altra caratteristica che lo renda differente rispetto ai canoni abituali. Nulla ci toglie dalla mente, infatti, che Willy abbia pagato con la vita non solo la sua generosità nei confronti di un amico in difficoltà, cercando di placare la furia del branco, ma soprattutto il fatto di avere la pelle scura, di essere di origini capoverdiane e di essere, pertanto, considerato un essere inferiore dai suoi assassini. Il che la dice lunga sul clima che è stato instaurato in Italia a partire dal 2001, ossia da quando si è cominciato a tollerare che i fascisti di ogni ordine e grado la facessero da padroni. La logica che ha ucciso Willy è la stessa che portò al pestaggio dei manifestanti che dormivano alla Diaz, è la stessa di Bolzaneto, delle strade e delle piazze che vennero riempite di sangue e di orrore in quei giorni di luglio di vent’anni fa. È la stessa follia che giustifica, sostanzialmente, la violenza contro le donne, che ha sommerso di ingiurie a sfondo sessuale Carola Rackete, che ha condotto ai Decreti sicurezza targati Salvini, che anima leggi liberticide e indegne di un paese civile, che ispira il sostegno ai lager libici e le continue vessazioni nei centri d’accoglienza italiani. È la stessa logica di Santa Maria Capua Vetere e della furia contro chiunque sia fragile, solo, in difficoltà, al punto che persino una misura di puro buonsenso come il Reddito di cittadinanza è stata paragonata al metadone, ossia alla salvezza per coloro che hanno avuto problemi di droga ma non per questo meritano di finire in carcere o di essere gettati in discarica.
Ad animare una parte non piccola della politica e dell’opinione pubblica di questo Paese, e non solo di questo Paese e non solo a destra, è difatti la convinzione che ogni diversità debba essere bandita, che ogni debolezza debba essere condannata senza appello, che debba esserci spazio solo per chi può, sa e ce la fa da solo, in un’orgia di darwinismo sociale che tiene insieme liberismo economico e fascismo politico e genera un’atmosfera irrespirabile.
Willy Monteiro Duarte come Lena Zühlke vent’anni fa alla Diaz, come le persone picchiate a sangue nelle carceri, come i rifugiati sottoposti a continui soprusi, come i ragazzi che rimangono indietro a scuola: siamo al cospetto di una sorta di eugenetica che vorrebbe “ripulire” la comunità da ogni elemento non omologato. Ed è inutile che la nostra categoria se ne lavi le mani perché tra i responsabili di tutto questo ci siamo innanzitutto noi, che contribuiamo ad alimentare con pregiudizi, opere e anche omissioni questo abominio che sta rendendo l’Italia un letamaio.
Willy è morto perché nero, perché piccolo fisicamente e perché aveva scelto di restare umano. Le belve sono gli esecutori materiali del delitto ma ad armare i loro piedi è stata la nostra indifferenza o, in alcuni casi, la nostra implicita complicità.
Iscriviti alla Newsletter di Articolo21