In questi anni orribili in cui il nostro pianeta sta venendo giù a pezzi portandosi ovviamente dietro le nostre società illuse dell’onnipotenza, c’è effettivamente un modello che fa sperare, anzi fa capire, che un mondo bellissimo è possibile. E’ il modello paralimpiadi, i giochi olimpici per le persone con disabilità, che esordirono – e mi piace ricordarlo – nel 1960 a Roma.
I giochi paralimpici dimostrano che la forza di volontà, la disciplina, l’impegno, l’altruismo, la solidarietà, l’essere squadra, sono la chiave di volta della vita, sono il collante necessario per ottenere i risultati più impensabili. Finalmente anche i media, almeno quelli italiani, lo hanno capito e vederli sulle prime pagine è molto importante.
Le storie di questi atleti sono apparentemente incredibili e chi non conosce questa realtà non riesce nemmeno lontanamente a comprendere quanto ogni successo sia frutto non solo della forza del singolo ma di un piccolo mondo fatto di decine di persone che giocano tutte insieme una sola partita.
Il vincitore dei cento metri stile libero, Andrea Fantin, ha spiegato tutto nella semplice frase di dedica alla mamma, che lo portava ogni giorno a nuotare anche se lui faceva i capricci. Ecco, questo è il focus su cui concentrarsi: dietro ad ognuno degli atleti paralimpici non c’è solo l’allenatore, il club, i preparatori, ci sono più di ogni altra cosa le famiglie, i compagni, gli amici, l’umanità che vive il percorso di una persona che ha maggiori difficoltà degli altri. Centinaia di genitori, e soprattutto di mamme, fratelli, sorelle, amici, volontari rinunciano a parti (o interamente) della loro vita per vincere la battaglia della sopravvivenza alla pari, per dare una speranza, un traguardo, un obiettivo a chi potrebbe non averne più per sempre.
Storie che sembrano impossibili. Zheng Tao, il nuotatore cinese senza braccia che ha vinto quattro medaglie d’oro, rimasto così terribilmente mutilato per una scossa elettrica presa in un villaggio povero e sperduto, dove ha poi imparato a nuotare come un pesce senza pinne nei fiumi e nei laghi, prima di approdare in una vera piscina. E la nostra Bebe Vio, colpita da meningite fulminante a 11 anni e salvata per miracolo, al prezzo dell’amputazione di tutti gli arti. Braccia e gambe. Già, Bebe Vio. Il vaccino per la meningite non c’era. Oggi c’è. E quello che è successo a lei non succederà a chi si vaccina.
Ma mentre quella realtà paralimpica ci fa capire che un mondo bellissimo è possibile, noi siamo qui a dibattere di green pass si o no, di no vax che invocano la libertà, di dittatura sanitaria…invece di urlare a gran voce che i vincitori delle paralimpiadi non devono guadagnare meno di chi vince le olimpiadi di noi “normali”!