Quindici anni senza Oriana Fallaci ed è doveroso compiere una riflessione equilibrata sulla sua personalità complessa e controversa. Sbaglia chi, per antipatia, ne nega la grandezza di giornalista e di scrittrice, il coraggio, l’intraprendenza, la capacità di rischiare persino la vita per svolgere al meglio il proprio lavoro e l’abilità nello scrivere reportage e nel realizzare interviste che tuttora sono considerate, a ragione, capolavori quasi inarrivabili. Sbaglia, tuttavia, anche chi non prende atto del suo declino negli ultimi anni di vita, quando era diventata, spiace dirlo, una sorta di fondamentalista del pensiero occidentale della peggior specie, con critiche all’islam che non rendevano onore alla sua profonda conoscenza del mondo, compreso il mondo arabo, e un bushismo implicito che la rese una paladina dello spirito guerrafondaio di quel periodo.
La Fallaci di inizio secolo ormai malata e provata dalla sofferenza, era una donna irrequieta, la cui prosa rimaneva splendida ma le cui idee non possono essere ritenute in alcun modo condivisibili. Una sorta di invito alle crociate, il suo, influenzato dallo shock globale che fu rappresentato dell’11 settembre ma che, evidentemente, affondava le radici in un malessere che covava sorro la cenere di un Occidente già prima in guerra con se stesso. Un americanismo repubblicano che non rendeva onore alla sua storia di narratrice irriverente e sempre pronta all’invettiva, un appiattimento sulle verità ufficiali che destava incredulità in chiunque l’avesse apprezzata nei decenni precedenti per la sua abilità nel mettere in discussione proprio le veline di Stato e i tromboni che le rilanciano, un conformismo travestito da attacco ai demoni che costituiva la negazione stessa della passione civile che l’aveva sempre contraddistinta. La donna e la cronista che era andata a trovare Panagulis dopo la liberazione dal carcere, nella Grecia dei Colonnelli in cui parlare equivaleva spesso a morire, la donna e la cronista che pochi anni prima aveva portato nelle nostre case l’inferno del Vietnam, la donna e la cronista che non aveva mai confuso la propria voce col coro, negli ultimi anni era diventata malinconica, livorosa, intenta a combattere una battaglia sbagliata e persino ad accanirsi contro movimenti che si battevano per i medesimi ideali di verità e giustizia che avevano caratterizzato la sua esistenza. Peccato per questo bruttissimo finale, che tuttavia non cancella in alcun modo la Fallaci staffetta partigiana, la Fallaci che debutta sulle colonne dell’Europeo con un racconto sul funerale laico di un compagno, negli anni di Pio XII e della scomunica dei comunisti, la Fallaci che fa tremare Hollywood, pone al centro del dibattito pubblico internazionale la questione femminile, segue da vicino lo sbarco del primo uomo sulla luna, denuncia l’orrore delle dittature e si immerge nel dramma del mondo arabo con la vivacità che le era propria, intervistando, scoprendo, raccontando e non lasciandosi mai intimorire da nessuno.
Una vita lunga come un grande editoriale, in cui si piange, ci si commuove, ci si emoziona, si riflette, ci si innamora di tanta bellezza e forza interiore e alla fine ci si domanda sgomenti: Oriana, perché? Eppure, nonostante questo, quindici anni dopo, le rendiamo l’omaggio che merita.
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