NINO ROTA DI PIERFRANCESCO MOLITERNI
L’INGENUO CANDORE DI UN MUSICISTA
Gianfranco Angelucci
«Potrei raffigurare con la musica qualsiasi cosa, fosse anche una scopa». Aveva affermato Strauss al suo apogeo.
È un’immagine allegramente sfrontata, di quelle che restano impresse e che aprono le porte alla comprensione; non ignorando che il sommo compositore usa il verbo “raffigurare”, un termine visivo quanto di più lontano all’apparenza da una sequenza di note.
Personalmente ho sempre pensato che anche Nino Rota possedesse quello speciale, prodigioso talento di dar voce musicale ai concetti, alle idee, alle forme. Ho avuto la fortuna di conoscerlo molto presto restando accanto a Fellini e, parallelamente all’esperienza del set, trovandomi da subito a familiarizzare con la postproduzione cinematografica: vale a dire il doppiaggio, l’incisione dei rumori, e infine la registrazione della colonna musicale, la fase più emozionante dell’edizione, in cui avviene la fusione tra le immagini e la sonorità del film.
“Non esiste una musica alta e una musica bassa – mi spiegava Rota con la sua lucida, sorridente mitezza – la musica è una sola a vari gradi di espressività”.
Essendo la sua natura intrinsecamente musicale, non concepiva differenze tra i generi, tanto che lo scrittore Mario Soldati non si tratteneva dall’esclamare con la sua enfasi irruente: «Chi ama la musica ama Rota: Rota ‘è’ la musica! È fatto di musica ed è la musica.» Confessando poi a ruota che avrebbe voluto essere Fellini solo per avere la possibilità di trascorrere tanto tempo accanto al compositore.
Federico dal suo canto considerava Rota un angelo protettore che gli aveva dischiuso il passaggio alle armonie delle sfere celesti.
«Era una vera gioia lavorare con lui. La sua creatività te la sentivi così vicina che ti comunicava una sorta di ebbrezza fino a darti la sensazione che la musica la stessi facendo tu. Nino arrivava alla fine, quando lo stress per le riprese, il montaggio, il doppiaggio era al massimo, ma come arrivava lo stress spariva e tutto si trasformava in una festa, il film entrava in una zona lieta, serena, fantastica, in un’atmosfera dalla quale riceveva come nuova vita.»
Impossibile pensare ai film di Fellini dissociati dalla loro originalissima, inimitabile sonorità, e viceversa, è impossibile ascoltare un tema di Rota senza pensare a Fellini.
Tra i più grandi protagonisti della scena musicale del Novecento, Rota non conosce rivali nell’accompagnamento musicale cinematografico.
La musica da cinema, è pur noto, nasce dallo strimpellare di un pianista sotto lo schermo dei caffè parigini in cui il pubblico accorreva per assistere incantato all’inaudita invenzione dei Fratelli Lumière. Il commento musicale nasce con quella impronta originaria, la necessità di aggiungere un sostegno acustico alle figure mute che si muovevano sullo schermo. Una funzione ancillare, di servizio, volta a sottolineare il pathos di ciò che accadeva, adottando soluzioni strumentali per sottolineare un inseguimento, una scazzottata, un brivido di orrore, una suspense, un bacio passionale.
Invece con Rota d’un tratto la musica da film assume caratteristiche diverse, diventa espressione consustanziale alla trama, nel solco nobile del melodramma. I motivi di Rota spiegano e raccontano il film nel suo complesso, come accade palpabilmente nelle overture, che riassumono liricamente la sostanza dell’intero racconto.
Possiamo dire che Rota compone la partitura del film, la sua trasfigurazione nel regno della melodia. E qui tocchiamo un tasto nevralgico: melodia, melodico, ‘guai! Cascami dell’Ottocento, sentimentalismi da canzone napoletana!
Sennonché la risposta ai detrattori giunge nientemeno che da Igor Stravinsky in persona con questa affermazione affidata alla sua Poétique musicale:
«Ciò che sopravvive a tutti i cambiamenti di sistema è la melodia, la capacità melodica è un dono, non ci è dato svilupparla con lo studio. L’esempio di Beethoven è indicativo: uno dei più grandi creatori della musica passò l’intera vita a implorare l’assistenza di questo dono che gli mancava. Bellini invece ha ricevuto la melodia senza essersi data la pena di domandarla. Io comincio a pensare, d’accordo con il grande pubblico, che la melodia debba conservare il suo posto al sommo della gerarchia degli elementi che formano la musica. La melodia è il più essenziale, non perché sia il più immediatamente percettibile, ma perché è la voce dominante del discorso musicale».
Pesco la sorprendente citazione dal bel libro di Pierfranco Moliterni, NINO ROTA, L’ingenuo candore di un musicista (Ed. “Radici Future”), nel quale l’autore ridisegna in rapidi e intensi capitoli la vita e la poetica artistica del compositore milanese.
Dopo un biennio di noviziato a Filadelfia (1931-32) immerso nello studio e nel favoloso sound americano di Cole Porter e George Gershwin, il giovanissimo maestro, tornato in Italia, si era stabilito a Torre a Mare, “il borgo di pescatori alle porte di Bari in cui cerca e trova una sede di studio e di vita”. Tale è il suo entusiasmo per l’atmosfera che lo circonda, da comporne addirittura un inno: «Sono poche case e pochi marinai/ son cuori semplici, animi gentili/ ma il mare e il piano dan beni infiniti/ e specialmente i pesci più squisiti».
In seguito chiamerà Torre a Mare “oasi di felicità”.
Dotato di talento precocissimo, si era recato in Francia, a dodici anni a dirigere nella fiamminga Turcoing, il suo oratorio L’infanzia di San Giovanni Battista; e a Parigi aveva visitato il Circo Mediano incontrando di persona i mitici clown Fratellini. Tramite quell’esperienza forse metabolizzava la musica del circo e da circo; come anche, nel sud Italia, si sarebbe immerso in “un mondo di suoni e di melodie popolari perlopiù veicolate da bande da giro pugliesi, di cui era diventato autentico e fanatico conoscitore”.
Se tendiamo l’orecchio ci pare già di ascoltare quell’estrosa mescolanza di suggestioni musicali che sarebbero andate a confluire nella prodigiosa creatività del musicista, in misteriosa sintonia con il fatale appuntamento alle porte, la conoscenza e l’amicizia con Fellini. Federico scriverà in seguito senza esitazioni:
“Io mi ero deciso a fare il regista e Nino era comparso perché potessi farlo”.
Dunque Nino Rota, musicista colto e raffinato, diventa autore di colonne sonore cinematografiche lasciando inorriditi i critici sussiegosi: come possono mai coesistere sullo stesso piano la musica alta e la musica bassa!
Tra il 1940 e il 1977 – racconta Moliterni, già docente di Storia della Musica al Conservatorio di Bari su chiamata dello stesso Nino Rota, che ne era stato per trent’anni il direttore – l’artista milanese aveva composto insieme alle 150 colonne sonore da film, altre 170 composizioni ‘colte’ tra sinfonie, sonate, oratori, concerti per strumento, musica da camera, musica sacra e infine undici opere, tra cui notissime Il principe porcaro e Il Cappello di paglia di Firenze. Musiche in controtendenza con l’orientamento del suo tempo più inclinato al ‘nuovismo’, con occhio sprezzante nei confronti del “rossinismo d’antan o del patetismo lacrimevole di Rota. Il quale invece era stato capace di far convivere (magari citandoli con abilità) Prokofiev, Poulenc, Dvoràk, Rossini, in uno con la musica popolare, la banda, il circo, e La pappa col pomodoro”.
Sotto il profilo tecnico Rota costituisce una felice anomalia e una prodigiosa novità, perché la sua musica non “accompagna” il film bensì lo traduce, lo racconta, lo esprime nelle sue parti più misteriose, lo ‘raffigura’, fosse anche una sedia.
Non si dedicava alla cosiddetta “musica applicata” perché forse considerava il film alla stregua di un libretto d’opera, su cui costruire temi e armonie che ne allestissero la partitura sonora:
«Io penso anche nei film di fare musica non cinematografica, nel senso comune della musica che commenti pedissequamente l’azione del film. Io penso sempre di fare una musica che sia a sé stante come musica, che si affianchi al film, che non si sottometta, che vi si adegui solamente materialmente».
Fin dai primissimi titoli (Lo Sceicco Bianco, i Vitelloni), i temi musicali ci restituiscono il sembiante più intimo e segreto, l’aspetto nascosto, l’anima dei film di Fellini
Nino era l’amico magico, come amava consideralo Fellini, il suo araldo in un empireo altrimenti precluso. Un incontro di destino.
Rota quindi non ‘commenta’ ma ‘inventa’ musicalmente i film, o meglio trasferisce la storia in musica. Basti pensare a La Strada, Le notti di Cabiria, Il Bidone, La Dolce Vita. O la celebre marcetta finale di Otto e Mezzo che riassume nel suo crescendo trascinante l’inestricabile intreccio di sentimenti di tutti i personaggi che si sono affollati fino a quel momento sullo schermo davanti ai nostri occhi.
E se è vero, come il compositore milanese ripeteva scherzando, che Fellini in ogni film avrebbe voluto “La marcia dei gladiatori” (Julius Fučík ‘Entrata dei gladiatori’ op. 68), bisogna onestamente riconoscere che la musica da lui scritta per I Clown ne era allo stesso tempo il coronamento e l’impareggiabile sublimazione.
Rota concepisce e adatta ogni sua invenzione ai desideri di Fellini con assoluta precisione, si vorrebbe aggiungere con sottilissima empatia.
Il regista sosteneva addirittura che Nino quando veniva chiamato ad assistere alla proiezione della copia lavoro per cominciare a ideare la musica, dopo le prime sequenze quasi sempre si addormentava. Pertanto spesso non conosceva la trama del film, non ricordava i personaggi, le situazioni, le scene, i dialoghi. Ma non gli servivano; era entrato in contatto con lo spirito nascosto dell’opera, ne aveva assimilato ciò di cui aveva bisogno, e i temi musicali sarebbero sgorgati da soli con estrema aderenza alla storia.
L’amico magico esprimeva l’inesprimibile. E ne era ben consapevole se a sua volta aveva candidamente ammesso in un celebre documentario di Suso Cecchi D’Amico e Mario Monicelli:
«A volte non comprendevo neppure la storia che Fellini aveva narrato, fino a quando non avevo composto la musica. Allora tutto mi appariva chiaro.»
Il rapporto tra regista e compositore appoggiava su una comunicazione mentale che trascendeva qualsiasi discorso verbale.
Rota rappresentava semplicemente il tramite capace di condensare nel linguaggio incorporeo delle note tutto ciò che non era esprimibile né con le parole né con le immagini. Era l’abitante delle armonie iperuraniche di cui discettavano Dante e San Tommaso. Le frasi melodiche che sapeva combinare con tanta sapienza per i film di Fellini, costituivano agli occhi del regista la riprova inconfutabile della sua natura ultraterrena:
«Era una creatura che portava con sé una qualità rara, quella qualità preziosa che appartiene alla sfera dell’intuizione. Era questo il dono che lo manteneva così innocente, aggraziato, lieto. Diceva delle cose acutissime, profonde, dava giudizi di impressionante esattezza su uomini e cose. Come i bambini, come gli uomini semplici, come certi sensitivi, come certa gente innocente e candida, diceva improvvisamente delle cose abbaglianti…»
E qui entriamo in un territorio assai avvincente: Nino Rota possedeva qualità medianiche indiscutibili, acutizzate verosimilmente dalla sua frequentazione con le discipline esoteriste. Argomento che Moliterni non trascura, anzi lascia divampare nel corso della sua disamina.
È ben noto che Rota nella sua casa a Piazza delle Coppelle (per inciso, la ‘coppella’ è il crogiuolo dell’alchimista), possedeva una delle più ingenti biblioteche esoteriche d’Europa, ereditata in parte dall’amico fraterno Vinci (Vincenzo) Verginelli, con cui condivideva gli ideali dell’ermetismo. Rota raccoglieva senza posa testi esoterici antichi e rari che, alla sua morte, furono donati all’Accademia Nazionale dei Lincei.
Per ricominciare a parlare, come sarebbe finalmente ora, del grande musicista, non sarebbe forse il caso di ripartire da qui?