Tra sogno e realtà, come al cinema
Wittgenstein di Derek Jarman , prod.G.B.1993.
Derek Jarman è stato un artista geniale, consapevolmente lontano dal grande pubblico. In questo film sul filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, girato tutto in interni, con una cinepresa quasi sempre fissa, egli riesce a fondere, come in un piccolo circo privato, i familiari del filosofo , grandi studiosi, anche suoi maestri, tra cui Bertrand Russell, e persino un extraterrestre, incaricato dai suoi simili di raccogliere informazioni sul grande intellettuale. E’ un film in cui convivono la profondità dei concetti, la leggerezza(insostenibile?) e la difficoltà del vivere. Derek Jarman sembra voler rimanere lontano dall’impianto classico del film di narrazione a tema. Preferisce muoversi dando allo spettatore tracce di un’esistenza, quella del filosofo, che non fu lontana dalle sue teorie. E lo fa elaborando momenti onirici, veicolati da una messinscena in apparenza teatrale ma, in realtà, profondamente cinematografica. Il tutto per catturare, e raccontare, i percorsi mentali di un uomo che riuscì a mettere insieme logiche fortemente connesse con la sua inarrestabile necessità di conoscenza. La filosofia di Wittgenstein si incarna nel film di Jarman nei colori e nelle azioni più diverse, capaci di mettere insieme le forme di un pensiero in continua evoluzione. Il racconto è veicolato in prima persona, consentendo al regista britannico di creare una forte empatia fra lo spettatore ed il filosofo, seguito dall’infanzia alla maturità, attraverso sensazioni e relazioni umane e intellettuali importanti come quelle con il succitato Russell o ancora con il genio dell’economia Keynes, fino al piccolo marziano, capace di dialogare da umano, in uno dei momenti più geniali del film. Dunque, Jarman ci regala un’opera in cui la sua visionarietà comunica efficacemente i termini di un pensiero difficile ma profondamente legato ai grandi temi del nostro essere, muovendosi fra esemplificazioni e colte asserzioni. E il trait d’union tra l’artista britannico e il filosofo è persino commovente, laddove la passione per il cinema di Wittgenstein diventa occasione d’oro, per Jarman, per riflettere sui mondi paralleli teorizzati dal grande austriaco. Un film raro, forse unico, anarchico quanto il fare cinema richiede, ma soprattutto capace di farci intuire le grandi possibilità che abbiamo di conoscere meglio noi stessi, e, dunque, il mondo che ci circonda. E quando, nella scena finale, vediamo Wittgenstein sul suo letto di morte, sappiamo che quell’uomo oramai inerme le ha provate tutte per venire a capo di quell’avventura strana e infinita che è la vita. Niente ci turba, la logica, almeno lei, ha vinto.
La Storia in movimento
“Un film parlato”, di Manoel De Oliveira, prod..Port-Fra-Ita, 2003
Una giovane signora portoghese, Rosa Maria, viaggia in crociera sul Mediterraneo, in compagnia della figlioletta Maria Joana, da Lisbona per raggiungere l’India, dove si trova il marito. Insegnante di storia, la donna vuole visitare quei luoghi di cui ha tanto parlato ai suoi allievi e la bambina, sempre più desiderosa di conoscenze, incalza la madre con le sue domande. Le opere d’arte incontrate dalle due durante il viaggio sono l’occasione per riattivare storia, miti e leggende che s’intrecciano fino a confondersi. L’incessante dialogo tra madre e figlia sottolinea il percorso conoscitivo intrapreso insieme, metaforico passaggio di conoscenze tra generazioni. Immagini e parole creano un tutt’uno sospeso fra passato e presente. La cinepresa si sofferma su ogni prospettiva naturale e culturale: quadri, architetture, rovine, panorami diventano momenti di un itinerario che giunge fino alla contemporaneità. Insomma, Manoel De Oliveira si conferma grande affabulatore, capace di catturare l’attenzione dello spettatore, facendolo entrare nei meandri, anche i più nascosti, dell’animo umano sospeso fra memoria e attualità. Non è un caso che la bambina, immersa nelle sue nuove esperienze, ponga riflessioni spontanee e logiche e che la madre le spieghi, serenamente, le contraddizioni della Storia. L’uomo, dice la donna, è immerso in un crogiuolo di sensazioni e razionalità che sembrano non potersi incontrare mai, fin quando anche per caso ciò avviene. De Oliveira precipita le due protagoniste all’interno di un viaggio infinito destinato a dilatarsi e restringersi secondi i tempi dettati dalla narrazione e dalle sue ellissi. Il vissuto personale di madre e figlia sembra, sequenza dopo sequenza, allontanarsi dal suo carattere privato, fino a fondersi con gli eventi della Storia, anche i più tragici, simbolicamente riassunti nel latente conflitto arabo-occidentale. E il dato esistenziale, nota comune di tutti i film del maestro portoghese, riemerge prepotente nell’inatteso finale, dove la grandezza dell’uomo è offesa, insopportabilmente, anche dal suo essere così precaria e fragile, vincolata com’è ai limiti materiali e al caso. Ancora una volta, il grande regista portoghese riesce a fondere esperienze quotidiane e massimi sistemi. La parola, essenza distintiva dell’umano, portatrice di conoscenza e relazioni, e strumento imprescindibile del cinema di De Oliveira, si manifesta, magicamente, nell’incontro di cinque personaggi, che riescono a intendersi fra di loro pur parlando ognuno la propria lingua: l’italiano, il francese, l’inglese, il portoghese e il greco, la madre lingua dell’occidente. Alla percezione delle immagini il maestro di Oporto affida, invece, il compito di svelare i lati più profondi del nostro essere. Il tutto attraverso una messinscena fatta di inquadrature fisse, necessarie a farci riflettere, dettagli e particolari metaforici, e un ritmo lento, perché reale e naturale, “non cinematografico”, a sottolineare lo scorrere del tempo cui l’uomo mai potrà sottrarsi, fino al suo essere acquisito alla Storia.
Tolstoj e il Dio denaro
“L’argent” Di Robert Bresson, prod. Fra-Svi,1983
14° e ultimo film, in 50 anni di carriera, del massimo regista francese Robert Bresson (1901-1999), “L’argent”, ispirato alla novella di Tolstoj, “Denaro falso”, si muove su due piani paralleli destinati inevitabilmente ad incrociarsi: il Capitale e la Morale. La parabola di Yvon, finito in galera per colpe non sue, consente a Bresson di ritornare sul suo tema preferito, la fine della Grazia nel mondo contemporaneo. Il suo cinema inane, fatto di silenzi e stasi drammatiche, tende verso il racconto del vuoto cui l’uomo è destinato, inevitabilmente. Come e più che nel precedente “Il diavolo probabilmente…”, del 1977, Bresson agisce poco la cinepresa, concentrandola sui dettagli e i particolari, per evidenziare un disagio esistenziale impossibile da risolversi, proprio perché l’uomo sembra essere stato abbandonato da un Dio che forse non è mai esistito. Questo cinema della negazione si risolve in una narrazione spietata dell’individuo e, di conseguenza, della società, entrambi prede di un meccanismo perverso messo in moto dal Capitale. Il denaro, in sostanza, diventa lo strumento della rovina, la causa delle catastrofi umane, essendo coincidente con la natura stessa dell’uomo, spasmodicamente desideroso di soddisfare piaceri e comportamenti privi di una morale di fondo, non mediati da una consapevolezza più alta, da un rispetto per se stessi e il prossimo. Questo è forse il film più duro e ineffabile di Bresson, giunto, all’età di 82 anni, nudo, senza infingimenti narrativi e formali, dinnanzi ad una umanità sempre più dolente, colpevole e innocente insieme, proprio perché abbandonata a se stessa, e, dunque, inevitabilmente condannata alla sofferenza e alla dannazione. Insomma, in Bresson il sacro si mischia alla colpa, fino allo schianto finale dell’immagine-uomo, sempre più irrisolta, indefinita. Per questo, il grande autore francese sembra voler rinunciare persino alla regia, andando anche oltre quel minimalismo di cui fu padre indiscusso. La sua visione del mondo, ormai senza speranza, lo costringe a mettere in campo inquadrature e sequenza prive di una logica sintattica. La realtà per Bresson è irraccontabile, destinata alla dissoluzione, come il suo cinema, destinato al valore più assoluto cui un artista possa ambire, la testimonianza.