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Mino Martinazzoli, la dignità della politica

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Dieci anni senza Fermo “Mino” Martinazzoli, il “frutto della disperazione”,  come si definì lui stesso parlando con don Mazzi, di una DC ormai allo sbando e prossima allo scioglimento, travolta da Tangentopoli e dall’emergere di nuovi equilibri, interni e internazionali, che non contemplavano più la presenza di un partito cattolico, centrista e oggettivamente sfiancato dalla necessità di stare sempre al potere.
Mino Martinazzoli venne chiamato in causa quando ormai tutto era perduto, dopo l’esaurirsi della stagione di De Mita, che aveva egemonizzato gli anni Ottanta, sommando per un periodo al ruolo di segretario del partito quello di presidente del Consiglio (al termine della presidenza Craxi e della breve parentesi di Goria), e quando ormai Andreotti non era più spendibile e i vertici della DC erano stati travolti da Mani Pulite.
Martinazzoli, uomo onesto, cattolico di scuola bresciana, la stessa di papa Montini, assunse la guida della fu Balena bianca cosciente che ormai era tutto finito, avvertendo in sé il senso del dovere e il bisogno di guardare oltre. Non a caso, agli albori del berlusconismo, pose dei paletti, tenendo dritta la barra e opponendosi all’ascesa di un personaggio verso il quale nutriva una profonda avversione. Così, insieme a Marini, Andreatta, Mattarella e altri protagonisti di quella drammatica fase di transizione, affrontò dapprima l’inevitabile sconfitta del Patto Segni, che nel ’94 non riuscì a erodere abbastanza consensi a una formazione del tutto inedita e destinata a sconvolgere per sempre gli assetti politici e istituzionali del nostro Paese, e poi la fase rivoluzionaria dell’Ulivo, intuizione di Andreatta che il popolarismo migliore sposò senza remore, opponendosi alla deriva a destra intrapresa da Buttiglione.
Martinazzoli, tuttavia, disse basta: nessun incarico nazionale e il ritorno nella natia Brescia, nel ruolo di sindaco, ripartendo dalla base e recuperando quel rapporto col territorio che era una delle caratteristiche principali della classe dirigente di una volta.
Politico antico e modernissimo, costruttore di scenari, visionario ricco di concretezza e personalità capace di farsi da parte al momento opportuno, ha avuto il merito di rimanere coerente con le sue idee fino alla fine, a dimostrazione di un’onesta intellettuale e di una forza d’animo non comuni.
Ci manca, di lui, soprattutto la schiettezza, il suo carattere mite ma capace anche di divenire aspro, e persino spiazzante, quando la situazione lo richiedeva.
Dieci anni e ci interroghiamo sul perché oggi si sia smarrita la strada.

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