Addio a Jean–Paul Belmondo, nei giorni in cui a Venezia è in corso la settantottesima edizione del Festival di Venezia. Aveva ottantotto anni ed era un’icona del cinema mondiale. Poliedrico, inarrivabile, amico e rivale di Alain Delon, scatenato sul set, al punto di voler girare anche le parti più pericolose senza controfigure, mai conquistato dalle sirene di Hollywood, esistenzialista ma in grado di dominare anche nei polizieschi anni Settanta, abile nel riciclarsi pure in film di cassetta per poi tornare a dare il meglio di sé: un caleidoscopio di emozioni, questo è stato Belmondo.
A cavallo tra i Cinquanta e i Sessanta divenne un’icona planetaria, toccando l’apice ne “La ciociara” di De Sica e in “Fino all’ultimo respiro” di Godard, senza contare le numerose altre pellicole in cui ha interpretato ruoli di primo piano e costruito un mito destinato all’eternità.
Non a caso, il lutto è stato globale: una perdita che rende bene l’idea della fine di un’epoca, del progressivo esaurirsi di una stagione di cui sempre più sta venendo meno anche il ricordo, di un tempo in cui si era davvero felici, ci si credeva, si guardava al domani con ottimismo e il cinema aveva un ruolo ben più importante del pur significativo impatto che ha attualmente.
Belmondo è stato un divo sui generis, una magnifica faccia da schiaffi, un uomo dotato di un fascino senza eguali, un idolo per più generazioni e un punto di riferimento per chiunque aveva a cuore un’altra idea di mondo, essendo lui l’incarnazione dell’irrequietezza, dell’inquietudine e della complessità dell’esistenza.
Quasi nove decenni, il grande racconto di un secolo controverso, anzi due, e l’essenza di un personaggio di frontiera, a metà fra bene e il male, fra la giustizia e il tormento, nello scorrere di una tumultuosa esistenza nella quale ne ha viste, dette e fatte di tutti i colori.
Un commosso omaggio alla più incredibile canaglia che sia apparsa sul grande schermo. Forse di personalità così non ne nasceranno più.
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