A mezzo secolo di distanza Margherita è di nuovo la bambina ferma sui gradini di casa che osserva sua madre, Maria Grazia, annuvolata ed elettrica nella giornata autunnale. La figura, flessuosa nel cappotto aderente dai bottoncini di vetro, prende vita nei chiaroscuri della scala di ardesia buia anche di giorno, dentro l’atmosfera indefinita, abitata da ombre e uniformità caliginosa.
Poiché il tempo della vita non procede in direzione rettilinea, e in quel momento, mentre passato e presente si toccano, la ragazza e tutte le donne che l’autrice diventerà guardano Maria Grazia con occhi innamorati, sovrapponendosi alla bimba dalle dita sporche d’inchiostro, con il desiderio di proteggere la madre brandendo una spada di legno, con un presagio di perdita. Siamo braccati dalla sottile persistenza delle persone amate, dopo la loro scomparsa, e destinati a ricomporne i frammenti, i riflessi perduti, cogliendone il passaggio subliminale a un incrocio, l’ombra del profumo in una stanza, il tremito che rende irresolute le mani, il ricordo improvviso di uno sguardo che ancora ci raggiunge e di cui riusciamo a cogliere per un solo istante il trascorrere febbrile o incerto.
Giacobino discende nel passato per riportarlo in pieno sole e farlo oscillare al vento, utilizzando i dettagli del tempo ritrovato e un linguaggio che nei momenti più ispirati ricorda le invenzioni gaddiche, in cui le parole si piegano anamorfiche per rappresentare il senso delle cose e la toponomastica. Ce li vediamo davanti agli occhi, noi svagati flâneurs preadolescenti, i manifesti del cinema Italia con le dive di allora – Loren, Lollo, Taylor – dai corpi curvacei e ondulanti. E i personaggi che si animano nei dagherrotipi in b/n: Barba Giuanin con la testa ispida sale e pepe, magna Ninin con i denti in fuori e le rughe di scontento, il viaggiatore di commercio Bertolo, la vedova Branca che pare una vecchia principessa esule dalla Russia zarista, la maestra – un topino feroce con le labbra rosa geranio.
Da queste figurine prende l’abbrivio un lessico familiare che esprime la volontà di una ricerca minuziosa, concentrata, del vocabolo giusto, di quell’unica parola precisa capace di dare forma e vita alle cose, alle persone e agli stati d’animo. Quella dell’autrice è una prosa lieve ed esatta, a tratti contenuta oppure ironica, mai contaminata da esibizionismi e intellettualismi, che ad ogni frase rende materico ciò che sembrava irrimediabilmente trascorso. La bambina che rumina pane e caramelle passa ancora una volta sotto i rami dei cedri dell’Atlante, e coglie la fiammella nascosta che arde nella madre, simile a quelle che si rincorrono nei boschi di Shakespeare, la fiamma che l’ha fatta innamorare di Gilin, il James Dean delle valli di Lanzo.
La precisione plastica delle parole fa riapparire la tabaccheria-edicola dove Maria Grazia si procaccia i romanzi d’amore e desiderio, cui seguiranno i volumi “seri” della Medusa Mondadori, dalla copertina verde e bianca. Poi le migliaia di libri che hanno rappresentato il punto di fuga dall’ignoranza del piccolo mondo chiuso della provincia piemontese. Un vizio, quello della lettura, trasmesso alla figlia, insieme ai sogni, al desiderio di viaggiare, di respirare l’orizzonte; contro i principi educativi fascisti ancora imperanti, che precludono alle bambine persino i colori accesi durante l’ora di disegno, confinandole nel recinto delle letture morigerate.
L’anno dell’istantanea con cappotto nero è il 1963, quello della rovina economica della famiglia; una rumorosa frana di masse rocciose, provocata dalla passione di Gilin per il tappeto verde, che travolge gli orti e le vite della madre Maria e delle magne Apollonia e Giulia, incapaci della cattiveria che sarebbe stata necessaria e perciò strozzate da quel figlio e nipote incosciente come da una pianta infestante; un giocatore vittimista che si muove nervoso in un cerchio d’irrealtà fra bar e osterie, con incursioni fatali nei Casinò. Così, nel bel mezzo del boom economico che trasforma la necessità in volontà di riscatto dalla scarsità di cibo e spazza via i piccoli empori con la segatura sul pavimento, il vizio di Gilin fa beccheggiare in modo sinistro il negozio di Maria Grazia – i biscotti, il cioccolato, le pere, le insalate – fra debiti e ufficiali giudiziari.
Maria Grazia però compie un atto di dignità, scegliendo di non dichiarare fallimento e di accollarsi i debiti del marito e la cura di Margherita e magna Ninin. Tre volte la settimana si alza prima dell’alba per andare ai mercati generali, guidando un furgoncino Volkswagen sotto la pioggia o la neve, o in mezzo ai prati fioriti di acacie e sambuchi, senza dare peso alle occhiate acide delle madame. Giacobino tesse con pudore il racconto dello strappo, naturale e necessario, che a poco a poco, nel corso della prima giovinezza, la separa dalla madre, da Ninin e dal paese. Quel salire di linfe acerbe che la trasforma in una gemma oscena, spingendola a balbettare davanti a Maria Grazia in termini eufemistici il suo voler bene a una ragazza, che nel lessico natale indica ogni sfumatura dell’amore, dal tenue affetto alla passione sfrenata.
Quale fotogramma della madre Margherita Giacobino consegna a noi e al Tempo? Più di tutti, forse, quello in cui prende il gatto Freddi con una mano sola per metterselo sotto il braccio, tenendo un libro nell’altra mano. È la Maria Grazia perfettamente al suo posto nel mondo come lo è Freddi – cui contende lo spazio nel letto – che Margherita ama in modo sfrontato e rimpiange. Prima che arrivino gli anni della dolcezza vaga, del crepuscolo progressivo e irreversibile.