Il girasole di Eugenio Montale resiste al tempo, all’oblio, alla fatica di vivere e anche a questo tempo senza sogni e senza poesia. Anzi, se vogliamo, la sua grandezza visionaria, a quarant’anni dalla scomparsa, è rafforzata dalla mestizia di questi giorni senza amore nei quali siamo immersi.
Quando si pensa a Montale, viene in mente un secolo, il travaglio del Novecento, le sue guerre, i suoi lutti, i suoi abissi, e vengono in mente anche le parole profetiche e visionarie con cui il poeta genovese seppe affrontare ogni emozione e i tanti diluvi della storia che gli sono passati sotto gli occhi.
Conobbe Gobetti prima che la violenza squadrista lo costringesse ad abbandonare l’Italia, dopo averlo massacrato al punto di causarne la morte a soli ventiquattro anni, e allo straordinario intellettuale azionista e alla sua casa editrice affidò i suoi “Ossi di seppia”. Attraversò due conflitti mondiali, infinite disillusioni, il tramonto della politica, iniziato nei giorni di piazza Fontana e del sospetto che si fosse trattato di una Strage di Stato, e a Stoccolma, durante la cerimonia del Nobel, disse con forza che solo la poesia ci avrebbe potuto salvare. La poesia, come detto, è stata espulsa dal nostro orizzonte collettivo, al pari della bellezza e della gioia di vivere, ma uomini come Montale sono destinati all’eternità, proprio come i loro versi, la loro forza d’animo, la loro eredità letteraria e spirituale che nessuna avversità potrà mai far sfiorire. Il suo girasole, nonostante sia stato trapiantato in un terreno bruciato dal salino, continua a brillare anche al crepuscolo dell’estate. Forse perché di poesia, di amore, di pietà, di valori universali e di parole gentili ne abbiamo più che mai bisogno. Un’esigenza crescente che prima non avvertivamo e adesso, invece, si impone.
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