“Dico solo che non afferro perché sta qui se pensa che è tanto dura”. Si sedette e attese la mia risposta. Quando alla fine parlai mi tremava la voce: “Sono qui perché sono nato e cresciuto qui. È qui che ho vissuto tutta la vita. Nel bene e nel male – e c’è sempre un poco di entrambi – non voglio stare da nessun’altra parte. Non ci ho mai neppure pensato. L’America è la mia casa”.
È proprio nelle ultime parole di “Elegie alla Patria”, di Ayad Akhtar, edito in Italia da La Nave di Teseo, in libreria dallo scorso 26 agosto (475pp, 21Euro), che si annida tutto il senso di quest’opera. Un racconto intimo, in buona parte autobiografico, sulla difficoltà di essere americano e musulmano nell’America del post 11 settembre. L’autore – Premio Pulitzer per la drammaturgia 2013 con ‘Disgraced’ – racconta in prima persona la sua storia e quella delle sue origini, pur mettendo in guardia il lettore citando Lawrence: “Non fidatevi dell’artista. Fidatevi del racconto”.
Figlio di due medici pakistani arrivati negli Stati Uniti dopo il 1965, terra che gli ha dato i natali, Ayad Akhtar ha sperimentato fin da subito le differenze in seno alle due culture, quella pakistana e quella statunitense. Clamoroso il repentino cambio di atteggiamento dello ‘zio Latif’, grande amore di sua madre, anch’egli un medico stabilitosi in America, con il suo precipitoso rientro in patria: “Più tempo passiamo qui, più dimentichiamo chi siamo”.
Ayad è cresciuto in quell’America cui i suoi genitori guardavano in modo assai differente: suo padre, Sikander, cardiologo di fama, riponeva in essa una enorme fiducia: la terra delle opportunità; di contro, sua madre: “non trovò mai nei vari tesori del suo nuovo paese nessun risarcimento adeguato alla perdita di ciò che si era lasciata alle spalle”.
Per molti anni l’autore non presagì quel che sarebbe successo e quello che anche la sua professoressa ai tempi dell’università, Mary Moroni, aveva intravisto con così grande anticipo: un significativo cambio di passo della società americana verso gli immigrati, in particolare quelli musulmani. Fu solo molti anni dopo, superato il lungo periodo in cui era ‘sempre al verde’, dopo l’incontro con Riaz Rind, e quando era ormai riuscito ad affermarsi come drammaturgo, che Ayad si trovò di fronte una nuova realtà, post 11 settembre, in cui il mondo cambiò. Quell’orribile giorno di settembre gli aveva, infatti, precluso il futuro, il suo e quello dei musulmani come lui, per almeno un’altra generazione.
Un messaggio chiarissimo di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco, gli giunse a distanza di poche ore dal crollo delle Torri gemelle, quando era oramai convinzione comune che gli autori del vile attentato fossero di matrice islamica; mentre attendeva il suo turno per donare il sangue, gli giunsero insulti feroci dalla folla colà assiepata: “Non vogliamo il tuo sangue arabo’ Involontariamente risi, e (lui) si arrabbiò ancora di più. “Lo trovi divertente? Lo trovi divertente arabo del cazzo?’ ‘Le spiace star zitto signore? Gridai all’improvviso. Ma mi resi conto che la mia voce suonava debole, e questo peggiorò le cose. ‘Non dirmi che devo fare, fottuto terrorista’.
Gli anni che seguirono non migliorarono le cose. Anzi peggiorarono in maniera irreversibile con l’elezione alla carica di Presidente dell’ultraconservatore Donald Trump. Ed è proprio durante il mandato presidenziale di Trump che anche suo padre, che era stato un suo fervido sostenitore, venne colto da una crescente frustrazione per quel paese in cui aveva creduto così tanto e che ora lo metteva all’angolo, decidendo di tornare in Pakistan, così come aveva fatto anni prima Latif .
Ayad si troverà così sospeso, suo malgrado, tra due mondi: da una parte, gli Usa in cui viene ritenuto ‘pericoloso’ e guardato con sospetto per via delle sue chiare origini etniche, dall’altro, il Pakistan, in cui viene considerato alla stessa stregua di uno straniero non gradito.
Con un’opera a metà tra il dramma familiare e il romanzo picaresco, Akhtar offre uno sguardo attento e profondo sugli Stati Uniti e sulle loro contraddizioni, mescolando finzione e biografia e raccontando la storia di un padre e un figlio, dei rapporti con il passato e con le proprie radici.
Un romanzo impeccabile, dallo stile asciutto ma pregno di una fortissima carica emotiva che ci induce a riflettere sulle conseguenze che le incomprensioni tra i popoli, soprattutto se legate a questioni religiose, possono avere su tutti noi. Ma anche uno spaccato su ciò che è diventato oggi il Paese delle opportunità, ormai chiuso su sé stesso e silente.
Una lettura irrinunciabile.