Chiuso il reparto Ospedaletto del Cpr di Torino, lo stesso in cui a maggio si suicidò il giovane guineano Mussa Balde, lo stesso in cui nel 2019 morì Hossain Faisal, cittadino bengalese. Chiuso a seguito della Raccomandazione del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale secondo cui l’alloggiamento in tale reparto configura «un trattamento inumano e degradante» che espone il Paese al rischio di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. La sua chiusura è un passo importante e necessario.
Il Rapporto del Garante nazionale sul Centro di Torino è l’ultimo in ordine di tempo sui Cpr. Ad aprile era stato pubblicato quello sulle visite effettuate in tutti i Cpr nel 2019 e 2020. Quarantaquattro pagine dense di informazioni, osservazioni e raccomandazioni: dalla configurazione degli spazi e degli ambienti alla qualità della vita, dalla tutela della salute alla tutela dei diritti.
Tante le criticità evidenziate, a cominciare dalle stesse strutture di trattenimento, dei luoghi definiti nella Relazione del Garante nazionale al Parlamento «vuoti e sordi: vuoti perché privi di tutto, dagli arredi, spesso delle semplici sporgenze in muratura, a qualsiasi attività proposta; sordi perché isolati anche dalla società civile organizzata, presente invece in luoghi per definizione chiusi e separati come le carceri».
Negli ultimi anni, manifestazioni di protesta, ribellioni e danneggiamenti alle strutture si sono succeduti senza sosta. L’ultimo pochi giorni fa nella cosiddetta zona rossa del Centro di Torino. Segnali di un disagio profondo, di un malessere legato anche alle stesse strutture dall’architettura rudimentale, simili a contenitori di corpi più che di persone, senza attenzione ad ambienti di socialità e spazi per attività anche fisica.
Colpiscono anche i dati sulla ‘efficacia’ del sistema dei rimpatri, di cui i Cpr sono un anello della catena: nel 2020 su 4.387 persone trattenute nei Centri, ne sono state effettivamente rimpatriate 2.232, il 50, 8%. Un dato in linea con gli anni precedenti che hanno visto un picco minimo del 43% nel 2018 e un picco massimo del 59% nel 2017. Una stabilità che si mantiene a prescindere dalla durata massima di trattenimento stabilita dalla legge che si è modificata negli anni, passando dai 18 mesi del 2011 ai 30 giorni del 2014 fino ai 180 giorni attuali.
C’è da chiedersi quale sia il significato del tempo sottratto per quel 50% di persone private della libertà ma non rimpatriate. Spesso si tratta di persone provenienti da Paesi con i quali non si sono stabiliti rapporti bilaterali e il cui esito del periodo trascorso in detenzione si traduce un foglio di via che, rimanendo ineffettuale perché non ottemperato dalla persona, apre a successivi rientri in altri Centri e, quindi, ad altro tempo di detenzione. In un circolo vizioso che sembra perdere di vista la finalità stessa della privazione della libertà. A questo proposito il Garante nazionale richiama il diritto della persona privata della libertà in un Cpr a che tale privazione sia giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio. «Ciò rende illegittima la restrizione della libertà – scrive il Garante nazionale – quando non ci siano accordi con il Paese di destinazione che rendano questa ipotesi concretamente realizzabile».