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Bernie Sanders nei giorni del ricordo

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Bernie Sanders compie ottant’anni nei giorni in cui tutto il mondo guarda all’America con un misto di dolore e sgomento. Come vent’anni fa, in quel maledetto martedì che cambiò per sempre le sorti del pianeta. Gli aerei che si schiantano contro le Torri Gemelle, le due torri che collassano su se stesse, il suicidio disperato dei dipendenti che si lanciano dalla finestra quando capiscono che ormai non c’è più niente da fare, milioni, forse miliardi di occhi in tutto il mondo che assistono attoniti alla distruzione di un mito che appariva indistruttibile e poi ciò che è accaduto in seguito, fra guerre, altre migliaia di morti, un clima internazionale irrespirabile e un Occidente che purtroppo ha smarrito se stesso.
Bernie Sanders compie ottant’anni quando ormai la tragedia si è compiuta. L’America, colpita al cuore, è da vent’anni in guerra con se stessa, il mondo è stato destabilizzato in maniera irreparabile, in Afghanistan stiamo assistendo alle conseguenze della mattanza iniziata vent’anni fa col bizzarro nome di “Enduring freedoom” (Libertà duratura), il Medio Oriente è sempre più una polveriera e il terrorismo, tutt’altro che sconfitto, si è ulteriormente rafforzato, mettendo a repentaglio la sicurezza delle nostre società, erroneamente sicure di sé e dei propri diritti. Quanto agli squilibri, che erano stati denunciati dal popolo di Seattle e dai manifestanti di Genova, le disuguaglianze sono ulteriormente aumentate, il malessere globale è esploso e le migrazioni sono diventate oggi un fronte emergenziale che impedisce a qualunque governo occidentale di voltarsi dall’altra parte, al punto che, non volendo prenderci cura degli ultimi del mondo che noi stessi abbiamo reso tali, non facciamo altro che finanziare tagliagole e dittatori per arginare la marea che cerca di sfuggire dall’inferno che le abbiamo lasciato in eredità.
Bernie Sanders ha rappresentato per milioni di ragazzi l’ultima speranza. È stato sconfitto da logiche di partito e di apparato, dalle multinazionali e dai loro interessi inconfessabili, si è dovuto ritirare e il sogno di vederlo alla Casa Bianca, ahinoi, è destinato a rimanere tale. Peccato che le sue denunce, la sua richiesta di maggiore equità e giustizia, di un fisco che che chieda finalmente di pagare quanto dovuto ai grandi e grandissimi patrimoni e redistribuisca la ricchezza a vantaggio del ceto medio impoverito, di abolire la pena di morte e di democratizzare una comunità che dopo l’11 settembre si è sempre più imbarbarita, peccato che tutto questo sia destinato a rimanere lettera morta.
Joe Biden, che senz’altro è meglio di Trump ma non costituisce certo il cambiamento di cui avrebbe bisogno l’America per risollevarsi dal suo ventennale conflitto intestino, incarna una società invecchiata e impaurita, non più capace dei guizzi che avevano caratterizzato quel paese nei decenni precedenti, come se l’universo a stelle e strisce fosse diventato un emblema della chiusura e dell’arrocco proprio delle due sponde dell’Atlantico.
Il vecchio Bernie, la cui vitalità è parsa impressionante fin dalla prima candidatura alle Primarie democratiche, ha saputo prendere per mano i ventenni di oggi: le vere vittime dei cambiamenti climatici, del precariato esistenziale, delle disuguaglianze insostenibili, della violenza sociale diffusa, delle discriminazioni e del razzismo serpeggiante ovunque. Ha saputo restituire, senza retorica e con grande umanità, una speranza e potremmo dire un senso alla battaglia politica, sfidando l’establishment dell’asinello e indicando coraggiosamente un’altra strada. È stato battuto ma non ha perso, anche se difficilmente la bontà delle sue idee potrà essere rivendicata a breve e non è detto che ci sia una personalità più giovane in grado di raccoglierne il testimone. Fatto sta che ha gettato un seme, percorso un sentiero che fino alla sua candidatura nessuno aveva imboccato, affermato idee e valori che trent’anni di “fine della storia” e altre amenità avevano seppellito sotto un cumulo di orrore e disparità persino ostentata. E così oggi, nel ventennale dello sfregio, mentre New York si prepara a commemorare le vittime e si avverte il vuoto di quel cratere rimasto al centro di una città ancora ferita, ci rendiamo conto di quanto sarebbe necessario un cambio di passo globale, anche perché il pianeta davvero non ne può più di sopportare questi ritmi e questo modello disumano, basato su uno sfruttamento degli uomini prossimo al cannibalismo.
A Bernie e alla sua visionaria grandezza inviamo i migliori auguri e un grande abbraccio, mentre ci prepariamo a rimanere in silenzio, a fermarci e a spendere un pensiero per chi non c’è più, vittima dell’orrore di quel giorno di vent’anni fa e, in molti casi, di ciò che ne è seguito. Quanto all’America, infine, auspichiamo che possa presto riscoprire la sua ragione di esistere, ritrovando un ruolo nel mondo che non sia più egemonico, non potrebbe esserlo, ma di partner essenziale per un’Europa anch’essa in crisi di identità. Con meno di questo, assisteremo a breve al tramonto collettivo di tutto ciò in cui avevamo creduto, forse illudendoci, per decenni.
P.S. Quest’articolo è dedicato alla memoria di Nino Castelnuovo, un attore cresciuto alla scuola di Strehler che ha onorato come pochi il servizio pubblico e la vivacità culturale che un tempo era capace di esprimere. Un addio colmo di gratitudine.

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