Non è facile parlare della propria città, soprattutto se si tratta di Catania, città difficile, in bilico, “con un piede nella fossa e l’altro immerso nel sogno” come sottolinea la Regina dei quatteri nella parte conclusiva dello spettacolo dal suggestivo ed evocativo titolo “I Moschettieri”, di Roberta Amato. Come non pensare al “D’Artagnan” di Nino Martoglio, fustigatore e polemico giornale della Catania di fine Ottocento?
L’autrice per di più la sua Catania la fa raccontare, prova ancora più difficile, a tre protagonisti del male oscuro che si annida nelle pieghe del tessuto decomposto della loro “amata” città. Indossa il loro punto di vista spiandoli nella loro intimità quotidiana, li rappresenta, li riprende con occhio osservatore, ne sottolinea il paradosso, strappando sorrisi laddove si intravvede una lacrima.
Non è semplice entrare nella forma mentis dei mafiosi. Ci ha provato Marco Bellocchio nel suo film “Il traditore”, ma rimane sempre una zona d’ombra, quello scarto che separa da un codice sconosciuto. Una città abbandonata a se stessa così non può che mostrare le sue ferite, i suoi sussulti, le sue contraddizioni.
La penna dell’Amato, per affondare ancora di più la lama, ha indossato la livrea della regia di Nicola Alberto Orofino, all’insegna del grottesco, l’unica cifra possibile per un tema così dolente, se non si vuole scivolare nella retorica.
“Bella Catania…bella…” risuona cinicamente questa frase, colorita dall’indolenza tipica del linguaggio mafioso. E’ l’incipit dello spettacolo. Sua Maestà Catania, la Regina dei quatteri, è seduta impettita alla scrivania. Con il piglio del manager dirige il traffico malavitoso, inalberando per contrasto una pettinatura a “tuppo”, di marca quartieri bassi. Luccicante di ori diffusi, incarna la Grande Madre a cui non puoi dire “No”. Statica e maestosamente kitsch, è un personaggio emblematico e ambiguo a cui dà respiro e consistenza Egle Doria, in brevi, incisive apparizioni, lasciandoci dentro la voglia di conoscerla di più, di vederla vivere ancora. Carezze e sguardo algido, tiene saldamente in pugno i suoi servitori. All’inizio dormono. Li vediamo giacere su materassi accatastati in terra. Si alzano a fatica, stremati dal gozzovigliare notturno. All’inerzia iniziale oppongono un frenetico quotidiano. Si lavano, si vestono, in un movimento incessante che ricorda il dinamismo parossistico di Emma Dante, mentre parlano ininterrottamente. Sono macchine da guerra. Sono programmati per delinquere. Sono giovani, baldanzosi, progettano crimini in un incessante percorso iperbolico, mentre la scena si scompone e ricompone in tasselli di virtuose pratiche di rapine, scippi, pizzo, in una lista umoristicamente tragica. Orgogliosi della loro città e della loro squadra di calcio, “quei bravi ragazzi dei quartieri” inseguono strenuamente i loro ideali: i soldi, la bella vita. Niente istruzione, niente cultura, niente di niente. Inesorabilmente stanno chiusi nel loro bunker emblematico, che genera un senso di claustrofobia, ma anche di pena per quell’asfittico, falso orizzonte. Un tunnel senza via d’uscita. Ci prova uno di loro. Si apre uno spiraglio di luce nel buio della loro prigione. Perché qualcuno dei Bummacaro, Moncada, Nitta (i loro nomi sono quelli delle strade anonime di Librino, un quartiere emarginato di Catania) la sente la voglia di uscire dal pantano, ben nascosta nella mise di disonesto parvenu. Solo che è difficile, molto difficile…
Inarrestabili gli interpreti Egle Doria, Gianmarco Arcadipane, Luigi Nicotra, Vincenzo Ricca, mentre disegnano con forza interpretativa le loro improbabili silhouette, sullo sfondo di uno squallore senza fine.
La regia di Orofino, che ben conosce i segreti dello scardinamento, taglia senza spargimento di sangue, squarta senza che un solo gesto manifesto di violenza appaia davanti ai nostri occhi. Apparentemente tutto è normale, soft, come nella scena mimata, di notevole impatto, dove l’interdizione muta della Regina sorveglia e sottrae libri e oggetti di emancipazione ai sudditi, mentre dispensa baci e carezze con subdola, soave dolcezza, mascherando quella pesantezza, quella violenza sottile con la quale sovrasta le loro teste, impasta i gesti, le parole, i pensieri, li spalma su quei materassi che sono le loro bare. Da questo delirio non si esce vivi.
Tutti perdenti fino a quando anche un solo uomo penserà di edificare il proprio benessere sul malessere altrui, sembra dire la cruda e colorita pièce, mentre il buio scende sullo spettatore che imbocca l’uscita.
I MOSCHETTIERI
di Roberta Amato
Regia di Nicola Alberto Orofino
Con Egle Doria, Gianmarco Arcadipane, Luigi Nicotra, Vincenzo Ricca
Scene e costumi di Vincenzo La Mendola
Assistente alla regia Gabriella Caltabiano
Produzione Associazione culturale Madè.
Palazzo della Cultura – Catania. SummerFest 2021